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Vasco Brondi, il chiaroscuro della svolta pop

«C’è un periodo della nostra vita, forse la fine dell’adolescenza o poco dopo i 20 anni, in cui formi la tua personalità, il modo in cui ti relazioni col mondo e con le persone. La musica è una parte importante di questo processo. Per alcune persone quella musica sono le canzoni dei Talking Heads, che hanno ascoltato in un periodo formativo. Posso capire che chi ha vissuto quella musica in quel periodo della sua vita faccia fatichi a trovare qualcos’altro all’altezza. Non si tratta di me. Non si tratta di chiedersi se sono in grado di scrivere canzoni all’altezza di quelle dei Talking Heads. So di poterlo fare. Ma anche se scrivessi canzoni come quelle, chi ha vissuto quella musica in un certo momento della sua vita non le troverà mai all’altezza delle vecchie cose. Non è colpa dell’autore. È la vita.»

–  David Byrne

Vasco Brondi nel 2008 iniziava a raccontare, attraverso testi nichilisti, musiche e arrangiamenti minimali, le disillusioni, le speranze bruciate e le inquietudini dei Millennial, che avevano visto progressivamente dissolversi i sogni in compagnia dei quali erano cresciuti: atomizzazione dei rapporti sociali e disgregazione del senso di appartenenza a una comunità, fondamenti fino a quel momento della costruzione del senso di identità giovanile, crollo degli ideali, ripiegamento sulla sfera del privato e del quotidiano e una rabbia di fondo che non trovava più sbocchi costruttivi. La musica sembrava inizialmente smarrita. poi improvvisamente un colpo d’ala; nasceva quello che poco tempo dopo sarebbe stato definito come “indie italiano”.

Centro nevralgico di questa nuova leva cantautorale è collocato a Roma, tra due quartieri da quel momento non più antitetici, ma contaminati: i Parioli e il Pigneto. Niccolò Contessa e Giovanni Truppi (artisticamente nato nella capitale), seppur con tutte le loro differenze, sono i battistrada di una nuova scena all’interno della quale si inseriranno poi molti altri artisti, alcuni anche di diversa provenienza artistica. Ma se proprio dovessimo individuare il vagito primordiale di questa nuova ondata, forse è a Ferrara che dovremmo porgere la nostra attenzione. Nella città estense, nel 2008, prende le mosse il progetto di Vasco Brondi che, al tempo accompagnato da Giorgio Canali alle chitarre, raduna attorno a sé una serie di musicisti e decide, quasi per caso, di farsi chiamare Le Luci Della Centrale Elettrica.


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1 Febbraio 2024: Vasco Brondi compie quaranta anni. Da tre si presenta al pubblico con il suo nome e cognome. Il 15 marzo 2024 esce “Un Segno di Vita”, secondo album di questa seconda fase della sua carriera: è il disco pop e carico di speranza e positività che non ti aspetti. Forse per disancorare i suoi fan dai loro stessi venti anni e limitare l’ineluttabile descritto sopra da David Byrne. Forse per sorprenderli. Forse perché la funzione di un artista è quella di intercettare istanze individuali e collettive non ancora emerse a livello di piena consapevolezza. Forse perché sono cambiati i suoi fan. Troppi “forse”, per cercare di avere una seppur minima risposta. L’unica è andare a vedere la sua prima delle due date romane in programma a Largo Venue. A poco più di cento metri in linea d’aria da quel Pigneto e da quella Prenestina, dalle cui porte e finestre aperte sul traffico romano, risuonavano spesso le sue note.

Anna Carol

Prima di lui appare Anna Carol, cantautrice che immagino venga dal jazz e già vista diversi mesi fa allo Spring Attitude Festival. Allora in versione elettronica, stasera si accompagna con una chitarra. Come qualche tempo fa si fa più che ascoltare: voce pulita e bel suono della Rickenbacker, è gentile e accogliente. Mezzo voto in meno per il «sono supercontenta» a inizio set. Se la rischia con ‘Ancora Ancora Ancora’ di Mina, ma ne esce bene. Interessante ‘Colla’, suo ultimo singolo. Il pubblico la ascolta con attenzione, rispetto e apprezzamento.

Poi Vasco Brondi. Palco essenziale, senza fronzoli. Accompagnato da Riccardo Onori e Andrea Faccioli alle chitarre, Niccolò Fornabaio alla batteria, Carlo Toller al pianoforte e al basso e Clara Rigoletti ai cori, alle tastiere e al violino. La setlist del tour trasuda del tempo che fu. Su ventidue canzoni, sono sedici quelle risalenti al periodo “Luci Della Centrale Elettrica”. Le canzoni eseguite dal recente “Un Segno di Vita” sono appena sei sulle dieci inserite nell’album, cinque di queste concentrate nelle prime 8. E la fanbase più accanita dimostra di conoscerle fin dal primo pezzo ‘Illumina Tutto’, rispondendo con prontezza alla richiesta di coro.

L’artista ferrarese parla molto con il suo pubblico. Cita Carl Gustav Jung e la sua teorizzazione dell’inconscio collettivo come base della sua scelta di esibirsi nei club, dove «l’illusione di essere separati dagli altri è più facile a cadere». Racconta di non avere mai il controllo pieno di quello che fa, delle canzoni che si scrivono da sole e del concetto di “fuoco” che che divampa, che scalda, che illumina, come filo conduttore del suo ultimo disco.

Sarà per le movenze che mi rimandano una sua introversione di fondo, per quel pizzico di timidezza e a delicatezza nel porsi ai suoi fan, o per la chitarra acustica che imbraccia prima di attaccare ‘Incendio’, per la voce lieve e delicata, o magari per la struttura dei pezzi e il modo di far girare melodia e armonie, ma colgo richiami a De Gregori, probabilmente non voluti stando a quanto raccontato poco prima. O forse sì, visto la scelta di regalare al pubblico la cover di ‘Cosa Sarà’, b side di un 45 giri (preistoria, lo so) del 1979 realizzato dal cantautore romano e da Lucio Dalla e  la sequenza di canzoni del “Principe” ad accompagnare il postconcerto.

Il confronto con il pubblico è continuo durante tutto il live. Parla di alpinisti, di labirinti, di percorsi, di addii e di radici dure a staccarsi dal terreno in cui hanno affondato i tentacoli. Gli accordi di piano introducono ’40 km’, lirica, intensa, sofferta come le paludi del delta del Po. Racconta della noia e della nebbia, tanto amata da un altro ferrarese, Michelangelo Antonioni che solo immerso completamente nel bianco poteva immaginare di essere altrove. E ‘Macbeth nella Nebbia’ parte con una bella atmosfera ovattata e ottundente e una vocalità un po’ in stile Offlaga, ma si perde poi nel pop un po’ leggero e privo di spessore del ritornello.

Vasco Brondi

Già, la “svolta” pop è la parte, a mio avviso, meno convincente della serata. Non si tratta tanto delle canzoni dell’album di recente uscita, quanto di un atteggiamento più generale, del colore dato all’intera performance. Se da una parte è lodevole e coraggioso esplorare nuovi territori, dall’altra si è un po’ smarrita quella rabbia, quell’incisività, quella tensione emotiva che caricava la sua musica. L’energia non sale più di tanto, gli stessi (ottimi) musicisti si limitano a stare nei binari del consentito, svolgendo il loro compito con qualità, ma senza particolari slanci e senza osare ciò che avrebbero potuto. Esecuzioni essenziali, con poco spazio per variazioni e code improvvisative.

In diversi momenti ho la sensazione che lo show vorrebbe essere un concerto pop a esclusivo uso e consumo della sua fanbase. Ma Vasco Brondi non ha le stigmate della popstar, e quello che ne viene fuori è un qualcosa che è a metà strada tra il cantautorato leggero e quello impegnato. Il percorso è già iniziato un paio di anni fa, con la collaborazione insieme a Francesca Michielin (e chissà che il cambio di nome non si inserisca all’interno di questa strategia). Accontenta tutti, o quasi, i fan della prima ora, e probabilmente ne acquisirà di giovanissimi adeguandosi ai linguaggi del pop contemporaneo, ma rende perplesso qualcuno tra i presenti che segue da anni il suo percorso musicale. La frase «vedo il primo ricambio generazionale. Qualcuno di voi aveva 5 anni quando ho scritto questo pezzo» è forse rivelatrice.

Ci sono le eccezioni. È il caso di ‘Destini generali’, brano aperto con una citazione di Tom Waits sull’importanza delle ambientazioni dei pezzi e chiuso con una drammatica declamazione apocalittica. E dei primi due pezzi del primo bis, in cui entra sostenuto soltanto da tre chitarre, una acustica e due elettriche. ‘Per Combattere l’Acne’, carica di rabbia e tensione che restano sospese all’altezza della bocca dello stomaco, e ‘Piromani’, preceduta dal racconto che spiega i motivi della scelta del suo precedente nome d’arte. In ‘Chakra’ invece ritorna quell’universo pop che mi lascia non tanto perplesso quanto indifferente.

La poesia di Jorge Luis Borges ‘Ciò Che Ti Offro’ è protagonista in apertura del secondo bis. In ‘Un Segno Di Vita’  i suoni sono caldi e mi colpisce il dettaglio della parte di piano dal suono pieno e presente. Si finisce in festa con l’attacco di batteria di ‘Nel Profondo Veneto’. Il Polesine, un angolo di meridione finito tra l’opulenta Treviso, la dotta Padova, l’Emilia godereccia. Ci si libera, si salta, si balla e Vasco Brondi scende tra il pubblico a cantare a squarciagola in modalità stadio. Un fan tra i fan, a chiudere un concerto in chiaroscuro, che ha quasi sicuramente appagato i fan, ma lasciato un po’ d’amaro in bocca nel vedere un artista sforzarsi di tirar fuori da sé stesso ciò che non è nelle corde della sua anima.
Traduzione: sembrava di essere da Ultimo, ma non era Ultimo.

Roma, 16/04/2024

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© Giulio Paravani

Vasco Brondi

Anna Carol

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