The Aristocrats, noblesse oblige
Ho letteralmente odiato questo 24 novembre.
Un venerdì in cui a Milano, per non ho ancora capito quale insano motivo, si sono accavallati davvero troppi concerti costringendo così i potenziali spettatori a far scelte dolorose.
Tra un Alcatraz che ospita i Lorna Shore, un Legend in cui vanno in scena i Villagers Of Ioannina City (spettacolari, se vi capitano a tiro non lasciateveli sfuggire), un Bloom dove suonano i Deathstars e un Dal Verme in cui mi sarebbe piaciuto vedere Dave Stewart festeggiare il 4Oesimo anniversario di “Sweet Dreams”, la scelta è ricaduta sul Live Music Club di Trezzo, che questa sera accoglie The Aristocrats e la loro esplosiva miscela di rock, progressive e fusion.
Per chi non avesse idea di chi si cela dietro a questo altisonante monicker, possiamo dire che il nome è tutt’altro che pellegrino, perché quando tre mostri sacri dei rispettivi strumenti uniscono le proprie forze per dare vita ad un progetto di questa caratura, il termine ‘aristocrazia’ appare tutto tranne che fuori luogo.
Alla chitarra troviamo il britannico Guthrie Govan, sorta di leggenda delle 6 corde con un passato negli Asia e nei GPS, ma noto soprattutto per la collaborazione con il prog-prince Steven Wilson, che lo ha voluto al suo fianco sia in studio che dal vivo nel periodo in cui sono stati partoriti quelli che vanno probabilmente considerati i suoi due album più riusciti, “The Raven That Refused To Sing” e “Hand.Cannot.Erase”.
In entrambi i tour, sul palco accanto a Wilson oltre ai soliti Adam Holzman e Nick Beggs c’era proprio lui, mentre dietro alla batteria sedeva Marco Minnemann (polistrumentista e compositore tedesco naturalizzato americano) diventato uno dei più quotati batteristi al mondo, uno che si è fatto le ossa accanto a gente del calibro di Joe Satriani, Adrian Belew e Steve Hackett e che è stato a tanto così dal sostituire Mike Portnoy nei Dream Theater in cui – narra la leggenda – non è entrato solo per sua personale decisione.
Mettiamola in questi termini: se mai Geddy Lee e Alex Lifeson decidessero davvero di dar nuova vita ai Rush, a mio personalissimo parere Marco sarebbe uno dei pochi nomi in grado di non far troppo rimpiangere il Professore.
Nel dicembre del 2011 capitò che Minnemann e Bryan Beller, il bassista di Joe Satriani, si trovassero senza un chitarrista per suonare ad Anheim, nell’ambito dell’annuale appuntamento invernale del NAMM.
In fretta e furia fu chiamato Govan, con cui ebbero a mala pena il tempo di provare un poco la sera prima dello show, per poi debuttare sul palco impressionando un po’ tutti, ma in primis sé stessi.
«Questa cosa funziona troppo bene», si dissero, ed ecco che il progetto The Aristocrats prese forma e sostanza, una sostanza che nel giro di 12 anni ha partorito quattro album, con un quinto in preparazione, ed una serie infinita di tour e concerti, che spesso e volentieri li hanno portati nel nostro paese.
Dagli inizi di ottobre, The Aristocrats stanno girando l’Europa portando in scena quello che hanno battezzato “Defrost Tour Europe 2023”, e questa sera la band arriva al Live Music Club di Trezzo ben rodata dalle 35 date precedenti.
È una delle ultimissime tappe, dopo questa ne restano solo quattro e tutte localizzate qui in Italia.
Il locale si sta progressivamente riempiendo e con discreta puntualità gli speakers iniziano a diffondere le note di ‘(I Can’t Get No) Satisfaction‘, nella versione schizoide a cura di uno dei gruppi più eclettici mai apparsi sulla scena, i mai troppo osannati Devo.
È l’intro che annuncia l’arrivo sul palco dei tres caballeros, che allo spegnersi delle luci danno il via allo show con ‘Stupid 7‘ ed un milione o due di note sparate in faccia ad un pubblico adorante.
Beller come sempre si erge a portavoce del trio e annuncia che questa sera ci suoneranno non uno, non due bensì tre pezzi nuovi, che faranno parte del loro nuovo album in uscita a breve: ‘Hey… Where’s My Drink Package‘ parrebbe farina del sacco di Minnemann mentre ‘Sgt. Rockhopper‘ va accreditata al buon Govan.
Beller invece si erge a protagonista in ‘Aristoclub‘, probabilmente il brano più accattivante tra i tre proposti, con quell’andamento in stile techno posato su base rock-fusion, e inframmezzato dal solito, mostruoso assolo di batteria con un Minnemann a dir poco stratosferico.
Pezzi nuovi a parte, in setlist troviamo un po’ tutto il meglio della loro produzione passata, da ‘Bad Asteroid‘ a ‘Last Orders‘ passando per ‘The Ballad Of Bonnie & Clyde‘ e ‘Through The Flower‘, lasciando a ‘Blues Fucker‘ il ruolo di primo ed unico bis.
In realtà i titoli dei brani potremmo anche dimenticarceli: ogni pezzo vive in equilibrio tra improvvisazione e virtuosismo tecnico, con un Minnemann assolutamente inarrivabile, un Govan in perenne assolo ed il basso di Beller a tenere insieme il tutto.
Più che ad un concerto, a tratti pare di assistere ad un clinic: il tutto suona perfetto, a volte pure troppo.
Fortunatamente i tre mostri su quel palco dispongono di una buona dose di autoironia, che alleggerisce non poco il peso di quel milione di note che ti rovesciano addosso, e che rende lo show tutto sommato godibile anche per chi, come il sottoscritto, non si esalta facilmente davanti al tecnicismo esasperato in cui tendono a cadere band di questo genere.