Oca Nera Rock

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PEOPLE #4: Matteo Moro

Ci eravamo lasciati con una bella storia: dalla vetta di un Brand di successo abbiamo visto una speranza per coloro che di arte vogliono viverci.
Ma c’è anche un’altra prospettiva da considerare, ed è quella di chi si sta affacciando adesso ai sogni, senza sapere se resteranno nel cassetto o se invece diventeranno vita.
Oggi in quel cassetto ci sbirciamo anche noi di Oca Nera Rock e per la rassegna “People” vi presentiamo Matteo Moro.

Matteo ha 28 anni ed è originario di Maserà, un paesino in provincia di Padova.
Di professione fa il tecnico luci, qualche volta il light designer, ma questa parola lo veste ancora in modo troppo largo e la pronuncia a denti stretti. È umile, tanto quanto è sicuro di ciò che fa:

«Se hai paura di firmare un lavoro, vuol dire che non hai lavorato abbastanza bene»

I suoi Guru sono Massimo Pozzoli, Davide Pedrotti, Mariano de Tassis, Daniele Pavan.
Parliamo di light designer affermati e stimati.
Davanti a questi nomi lui progetta, prende spunti, li abbandona e dopo inventa, poi sorride e torna sé stesso:

«Ti ringrazio, tra le altre interviste la mia brillerà quantomeno di luce riflessa»

Lui ci scherza e io mi emoziono: quanto siamo coraggiosi davanti alla grandezza dei nostri sogni?

Il tecnico luci, figura eterea che sentiamo sempre nominare. Ma cosa fa nel dettaglio, questo ‘luciaio’?

Uno spettacolo è composto da suoni, immagini, emozioni: il mio lavoro completa questa trasmissione al pubblico. Tecnicamente, all’inizio del tour di un artista il light designer progetta una sequenza di luci. Questa poi viene utilizzata come spettacolo di base e adattata da un operatore durante le esibizioni. Io mi occupo principalmente di live, faccio quindi il tecnico, ma con il tempo vorrei concentrarmi sempre di più sulla progettazione.

Come hai iniziato a fare questo lavoro e quali sono state le esperienze che ti hanno portato fino a qui?

Ho iniziato a 13 anni con un piccolo service della zona. Suonavo la batteria ed ero attratto dalle luci del palco. Ho iniziato a farle il tecnico per gioco, ci dedicavo ogni momento libero dagli studi. Crescendo ho avuto altre esperienze lavorative, ma alla fine ho scelto di fare della mia passione un vero e proprio lavoro. Nel 2012 ho seguito i Rumatera nel primo Home Festival: lì ho conosciuto grandi professionisti del settore e questo mi ha fatto maturare dal punto di vista qualitativo. Sono arrivati i primi lavori e le collaborazioni, fino ad arrivare a quest’anno in cui sto seguendo il tour mondiale dei Talco come light designer.

Quali sono le difficoltà maggiori? Le riscontri dappertutto?

In Italia questo mestiere non è contemplato tanto quanto all’estero. Al di là del riconoscimento formale, c’è un risvolto operativo: se parliamo di eventi non particolarmente grandi, il budget a disposizione per la progettazione delle luci si abbassa di molto o proprio non esiste, si demanda tutto al tecnico del live, senza troppa cura.
Senz’altro negli ultimi anni le cose stanno cambiando, tant’è che recentemente sono state raccolte delle firme per richiedere il riconoscimento istituzionale della professione di light designer.

Ho sentito parlare di te durante i concerti, soprattutto da parte dei fotografi: «stasera c’è Matteo Moro, portiamo a casa foto belle».
Dunque, cosa dicono di te le tue luci? Cosa ti contraddistingue?

Quando farò uno spettacolo su me stesso te lo dirò! (ride, ndr.).
Le mie luci di me dovrebbero dire gran poco. Alcuni miei colleghi preferiscono tenere molto buia la scena frontale del palco, a favore dell’effetto ‘controluce’. Ecco, io non sono pienamente d’accordo. Il mio stile, forse, è prevedere una scena più luminosa, far sì che il pubblico possa ‘vedere’ l’artista, stabilire un contatto con lui, salvo alcuni momenti in cui il buio è necessario.

Immagino che debba esserci un certo feeling tra il tecnico luci e l’artista: come fai a trovare la giusta coreografia di luci per ogni live?

Forse è solo fortuna. Ascolto molto attentamente l’album e focalizzo le emozioni che l’artista ha trasmesso a me per primo. In questo lavoro un po’ ci si sceglie: nei limiti del possibile ci si viene in contro, ma tendenzialmente chi lavora con me lo fa perché si fida e mi lascia carta bianca.

E se ti dicessi ‘Azzecatori‘? (brano dei Rumatera che imita e racconta Matteo, ndr.)

È stata una sorpresa. Bullo (Daniele Russo, chitarra e voce nei Rumatera) mi aveva detto che avrebbe scritto una canzone su di me. Non l’ho preso troppo sul serio, ma un giorno me l’ha fatta ascoltare: in quel momento ho capito che lui per un anno intero mi aveva osservato, studiato ogni atteggiamento, ogni espressione vocale ed è riuscito ad imitarmi alla perfezione! Insomma, per fare ciò mi ha dedicato tempo, mi ha dato importanza, non me lo aspettavo.

Qual è la strada per migliorarsi?

Guardo molto quello che fanno gli altri, cerco di imparare dai colleghi, ma non mi piace copiare. Se posso evito di riprodurre quello che ho già visto, piuttosto, se un’idea mi piace la utilizzo come spunto per creare, inventare.

C’è un sogno nel tuo cassetto?

Quello per cui sto lavorando. Avere una famiglia e magari, alzarmi dal letto al mattino per poi sedermi davanti al computer a disegnare luci, non dover viaggiare ogni giorno come tecnico.
Essere intervistato mi imbarazza: sono lusingato ma allo stesso tempo mi mette una sorta di responsabilità professionale addosso, vuol dire che forse in me c’è qualcosa di più e devo rendere conto alle mie capacità, lavorarci, crescere.

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