The Sun and The Moon – The Sun and The Moon
Mark Burgess aveva un sogno: voleva affermare il potere supremo della devastazione sentimentale, voleva raccontare di come il confine tra lo star bene e lo star male fosse più che esile, invisibile.
Voleva che la sua musica, la sua voce lacerante lo rendessero più grande dei Beatles, degli U2, che il mondo gli riconoscesse il ruolo di grande ed unico pifferaio magico dei suoni commotivi.
Voleva.
Ma il mondo, ed è un antico adagio, non sempre è giusto con i troppo buoni, ed allora Marcolino ha dovuto sopportare il teorema esistenziale che ci racconta che la fortuna accompagna più spesso i maudit che i benedict, ha dovuto stringere fortissimo le proprie spalle ed accettare l’unico ruolo che gli veniva consentito di recitare in questa vita: the outsider.
Io non posso avere il compito di restituirgli ciò che gli è stato ingiustamente tolto, o almeno non attribuito da quei primi anno ’80 ad oggi, ma raccontarvi un po’ delle sue gesta, beh, si, quello è mia voglia e competenza.
E dunque.
Burgess nel 1981 anima la sua creatura prediletta, The Chameleons.
Con questa band disegna i suoi arcobaleni malati, crea l’elegia della fragilità, prende per mano e conduce il girotondo dei mutilati d’amore.
E forgia con i suoi compari perle autentiche di lacerazione dell’anima, illumina con la loro Kodak a sei corde gli angoli bui della solitudine, prova a dare colore all’angoscia quotidiana, regala speranze a chi pensa che il futuro sia una chimera per i ricchi con residenza a Montecarlo.
Tre albums illuminano la strada dei primi Chameleons, gli unici che ci interessano alla fine, zeppi di inni straordinari allo struggimento, di ballate intime e melanconiche, di torch songs dal sapore amaro, di testi zeppi di maledentro.
‘Soul in isolation‘ diventa il modo di ritrovarsi di chi non si ritrova tra la gente, la sua voce e le loro chitarre diventano il sermone domenicale per gli adepti che si avvicinano ai suoni camaleontici.
Ma alla fine la giacca camaleontica finisce per sembrargli troppo stretta.
E Mark Burgess la appende momentaneamente alla maniglia della porta, per tentare di spiccare il grande salto.
Anno domini 1988, arriva il contratto con la major, arriva la Geffen, arrivano The Sun and the Moon.
La band è formata da Mark Burgess (basso e voce), il fido John Lever (batteria), Andy Clegg e Andy Whitaker (chitarre, tastiere).
Di qui doveva partire il volo infinito, la commistione delle albe con i tramonti, la congiunzione del cielo con gli inferi.
E…. E tutto questo accade, dal pozzo dei desideri nasce un disco straordinario, che solidifica le speranze Burgessiane, che si spende tra grandi suoni e movimenti dai picchi sentimentali altissimi, tra canzoni ispirate dalla “grande bellezza” e paesaggi che oscillano tra colori che si possono solo immaginare, mai vedere, solo immaginare. Ciò che non accade è che il mondo se ne accorga.
Nada. Niente. Niet. Silenzio.
Tutto passa, scorre e si ferma.
Nel silenzio.
E noi. Noi che ci eravamo preparati a fare la ola, a partecipare alla Messa, a preparare il campo per seminare il loro grano dorato, abbiamo potuto solo constatare di come il pianeta ancora non fosse pronto ad accogliere il trionfo delle striature dell’anima, così concentrato com’era a rincorrere nuovi standard del benessere effimero ed a preparare generazioni destinate a fallire.
Io ho ascoltato tante bande nella mia vita, ma non credo che un artista abbia mai scavato una tale cicatrice profonda nelle mie viscere come ha saputo fare Burgess. Forse Borland, forse Bates. Forse.
La mia personalissima verità è che tutti abbiamo almeno una crepa invisibile dentro di noi, e uno come Burgess con canzoni come ‘Death of Imagination‘ o ‘This Passionate Breed‘, autentiche stelle romantiche adagiate tra il sole e la luna, ha avuto il merito ed il genio di lasciarcele intravedere.
“The Sun and the Moon”, dieci canzoni che compongono il mosaico perfetto di un’opera malinconica dove il lieto fine non esiste.
Parole che scorrono ricordandoci che l’ego che ci fa sentire immensi, invincibili ed immortali alle volte dovrebbe ricordarsi che la distanza che ci separa con un possibile ed incombente inferno emotivo alle volte è infinitamente piccola.
Ed a quel punto non si è più giganti, ma mosche.
Burgess ha regalato al mondo parole “piene” come forse solo il succitato Adrian Borland è riuscito parimenti a fare.
E suoni che altro non fecero che aprire le porte alle parole.
Già, le parole.
Adesso basta con queste mie piccole parole, e andatevi a trovare questo disco se non l’avete mai sentito.
Andate. Andate, perché purtroppo non li fanno più dischi di questa intensità.
E questa non vuole essere una critica, ma solamente una piccola constatazione.
Che mi devo e vi devo raccontare con un po’ di vergogna.
Vergogna per essere circondato di un universo abitato di orecchie troppo ottuse per amare Mark Burgess, il suo Cielo e la sua Luna.
Artista |
The Sun and The Moon
|
Disco | The Sun and The Moon |
Anno | 1988 |
Etichetta | Geffen |
Genere musicale | post punk, wave, romantic |