Vestirsi di merda in tutte le lingue del mondo (fenomeni di hipsteria collettiva)
a cura di Angela Fiore
Chi non è stato al Primavera si è dovuto sorbire, durante e dopo il festival, un numero imprecisato di live report dei concerti (alcuni dei quali sono stati oggettivamente splendidi) e ha avuto di conseguenza fin troppe occasioni per deprimersi e marinare nella propria invidia.
Per tutti voi che non ne potete più di sentirvi dire quanto siano stati clamorosi gli Shellac o i The National, i QOTSA o i NIN (e sì, sono stati clamorosi), ecco un report che non parla di musica.
In quanto abitante del terzo millennio, ho sempre pensato di avere parecchi problemi che alle generazioni precedenti sono stati risparmiati, ma fino a poco tempo fa mi consolavo all’idea di non doverne sopportare altri che invece hanno afflitto, per esempio, coloro che oggi hanno l’età dei miei genitori.
Gli hippies ai concerti, per dire.
Quelli con la fascetta e i fiori in testa che ti barcollano addosso col sorriso ebete, strafatti di LSD.
“Ecco, quelli” mi dicevo “non sono e non saranno mai un mio problema”.
Mi sbagliavo e ci hanno pensato gli hipster a dimostrarmelo.
Intendiamoci, non è che il Primavera sia un festival riservato agli hipster e non si può nemmeno dire che questi costituiscano la maggior parte del pubblico che ha fatto straripare il Fórum di Barcellona.
Al contempo non si può negare che, fra tutte le sottoculture presenti al festival, quella hipster sia la più trasversale, la più internazionale e – senza ombra di dubbio – la più fastidiosa.
Essere circondati da cloni malriusciti di Zooey Deschanel che trillano e ammiccano in spagnolo, inglese, tedesco, francese, olandese, svedese e pistoiese, brandendo a caso macchine lomografiche mentre sono in fila allo stand degli hamburger vegani è un test per la pazienza internazionalmente riconosciuto: se riuscite a resistere per venti minuti senza picchiare nessuno sarete automaticamente candidati al ruolo di nuovo Dalai Lama.
C’è da dire che gli organizzatori del Primavera hanno dimostrato lungimiranza, relegando i due palchi a più alta concentrazione di hipster in una zona del Fórum leggermente separata dal resto, seminascosta e difficile da raggiungere, che è un po’ come dire “non c’è assolutamente niente di male a essere hipster, ma sono cose vostre, fatele fra di voi”.
È con lo spirito dell’esploratore nella savana e a scopo prevalentemente documentaristico (e anche, incidentalmente, per vedere se il side project di Lee Ranaldo sia valido come dicono – lo è), che mi accingo ad addentrarmi nei due luoghi in assoluto che, in questi tre giorni, conterranno più hipster che qualunque altro angolo del globo: il Vice Stage e il Pitchfork Stage del Primavera Festival 2014.
Ci sono diverse vie – tutte ugualmente impervie – per raggiungere questa particolare riserva naturale, ma la più suggestiva è il ponte, che in realtà non è un vero e proprio ponte, ma una splendida struttura architettonica di Alejandro Zaera.
Una volta arrivati sul punto più alto della scalinata ci si trova a dominare un panorama mozzafiato, che io scelgo di ignorare per concentrarmi invece sul pubblico del festival.
Sotto di me c’è il Pitchfork Stage, qualche centinaio di metri più avanti, in un’altra sezione del Fórum, il Rayban Stage.
Il contrasto esprime tutto quello che c’è da sapere sulle motivazioni che fornirò alla polizia, quando mi chiederanno “Signorina, perché ha rovesciato un calderone di olio bollente su una folla di hipster?”.
Il Rayban Stage è dedicato a generi che io tendo a rispettare a distanza: il tipo di musica che prevede la presenza sul palco di una cospicua quantità di fiati, l’impiego di lingue del bacino mediterraneo e un concetto di “percussioni” che trascende di parecchio l’idea di “batteria”.
Sono troppo lontana per capire chi stia suonando in questo momento, ma non c’è dubbio che il pubblico stia reagendo meravigliosamente: una massa compatta di gente salta a tempo, dal mio punto di osservazione sembra di vedere un grosso tappeto che si scuote da solo.
Dal Pitchfork Stage, immediatamente sotto di me, sento salire un generico beat indie rock, troppo tenue per capire chi stia suonando, ma provo ugualmente compassione per chiunque si trovi di fronte un pubblico come questo.
Sono tanti, davvero tanti, sono coloratissimi e vestiti da cretini e nessuno di loro (non pochi, NESSUNO) sta guardando il palco. Ondeggiano disinteressati, ognuno con il proprio smartphone in mano, chini sullo schermo, mentre i poveri cristi sul palco si fanno in quattro per intrattenerli.
Immaginate The Walking Dead con un massiccio product placement della Apple.
“Capisce, adesso, signor giudice il perché del calderone di olio bollente?”
“Sì, capisco, ha fatto benissimo, i miei complimenti, date subito una medaglia a questa donna!”
Scendo negli inferi.
Negli anni ’80 le scarpe ortopediche erano una condanna, il tipo di cosa che i genitori ti obbligavano a mettere per non farti venire su con la schiena storta e per cui i bulli della scuola ti prendevano in giro.
Qui, noto con sorpresa, sono un accessorio di moda che un certo numero di giovani adulti ha scelto liberamente di indossare. Camminano malissimo, ma con gli shorts stirati con il risvolto tipo uniforme del collegio e i calzini di spugna che cosa altro potevano mettersi?
Accanto a me un tizio biondo con l’afro di Jimi Hendrix e i baffi di Magnum P.I., una fascetta di spugna arcobaleno in fronte e una maglia da basket discute in tedesco con una ragazza che sfoggia una coda alta laterale e un maglioncino a rombi.
C’è anche un tizio vestito in modo normale per questa decade: provo un’istintiva simpatia, fino a quando non mi accorgo che si sta aggirando da solo, con aria loschissima, mormorando – in nessuna lingua ma con accento indiscutibilmente campano – “cocainaecstasypillserbamariacrystals”, con il tono cantilenante di un venditore di cocco in spiaggia.
Gli unici altri due con un abbigliamento che non mi faccia ricordare con raccapriccio le scuole elementari sono evidentemente anche loro non fan della musica dal vivo, dal momento che stanno apertamente puntando borse e telefoni della fauna distratta intorno a loro.
Arrivo finalmente in prossimità del Vice Stage.
Accanto a me un francese sulla trentina si arriccia i baffi a manubrio, lucidi come il manto di una foca.
Indossa un completo da golf stile primo novecento, con tanto di panciotto di tweed e basco.
Panciotto di tweed.
Siamo a fine maggio, in Spagna, ci sono 25 gradi e tu, mon ami, hai un panciotto di tweed sopra la camicia.
“Lo vedi che”, come direbbe Mariano Giusti, “qui l’unica persona che sta facendo uno sforzo perché io non ti meni sono sempre io?”.
Qualche metro più in là passa un gruppo di giovanissimi spagnoli ubriachi.
Uno di loro è vestito da grande puffo, un altro da banana: li capisco.
Hai diciotto anni, vai a un colossale festival pieno di concerti e birra a poco prezzo e ti vesti da banana.
Ha senso.
Ma il tweed?
È un paese libero, come dicono – a torto – nei film americani, quindi lo ignoro e torno a guardare il concerto.
No, non è esatto: torno ad ascoltare il concerto guardando una selva di mani sollevate sorreggenti smartphone, che coprono interamente la mia visuale.
Nella maggior parte dei piccoli schermi è riconoscibilissima l’interfaccia di Instagram, negli altri quella di Camera+: quelli veramente “avanti” editano la foto prima con Camera+ e poi la postano su Instagram.
Durante il concerto, naturalmente: per questo non hanno il tempo di guardarlo.
Mi colpisce come una rivelazione la certezza che le macchine del fumo non servano, come normalmente si pensa, ad aggiungere pathos e atmosfera a una live performance, ma a risparmiare a chi si trova sul palco la visione di una platea di imbecilli che lo ignorano per smanettare con il cellulare.
Sconsolata, mi appresto ad attraversare tutto il Fórum per arrivare al Sony Stage: suonano i The National e, considerando il successo commerciale della band, spero fervidamente in una concentrazione più bassa di orrori tessili e tricologici.
Le ragazze intorno a me si dividono equamente fra Zooey Deschanel in “500 giorni insieme” e Amélie Poulain, dimostrando due grandi verità: la prima è che, per la prima volta da cinquant’anni a questa parte, la moda maschile presenta una varietà maggiore di quella femminile.
La seconda è che per diventare il modello estetico delle ragazzine hipster bisogna avere un cognome francese, una pettinatura imbarazzante e il senso estetico di Gigi Marzullo.
Percorro il pericolosissimo viale di cemento piastrellato, che è pericolosissimo perché fiancheggiato da una parete in notevole pendenza che un flusso costante di idioti tenta regolarmente di scalare, ricadendo immancabilmente all’indietro contro quelli che passano.
Tipo me.
Fra gli aspiranti Messner, in questo momento, c’è un tizio muscolosissimo con i leggings più aderenti che io abbia mai visto.
Per dirla alla Woody Allen, sono così aderenti che non solo è possibile intuire il sesso di chi li indossa, ma anche la religione.
E sono rosso fuoco, naturalmente, perché il nostro ci tiene all’understatement.
Cade, si fa malissimo, ma cerca di nascondere la cosa per non passare da idiota con gli amici.
Avrei molta voglia di dirgli che quel particolare scopo l’ha mancato nel momento in cui ha deciso di uscire da casa con i leggings rossi di sua sorella di dodici anni.
Il pubblico dei The National mi delude solo in parte: è certamente vero che la band è ormai abbastanza famosa da allontanare il vero intenditore hipster che ripudia gli artisti che abbiano venduto più di tre copie, ma è vero anche che Matt Berninger ha una delle barbe più belle degli ultimi vent’anni e gli occhiali alla Sandro Pertini, quindi qualche irriducibile c’è.
Gli irriducibili sono tre, per la precisione, e si parcheggiano esattamente davanti a me, perché la legge di Murphy è scienza, mica chiacchiere.
Sono in tre, due ragazze e un ragazzo, sono spagnoli e rappresentano tutto quello che non vorrei vicino a un concerto.
Il ragazzo e una delle due ragazze sono una coppia e all’inizio sono troppo intenti a limonare per infastidire il prossimo, ma l’amica fa garbatamente notare che non è venuta al concerto per reggere il moccolo e loro decidono che è il momento di aprire le danze dimenandosi come tonni in una rete.
Tutti e tre portano bandane strette intorno alla fronte e io mi chiedo se quella storia del quadratino di LSD che si assorbe col sudore sia vera e se l’LSD sia ancora di moda.
Che i tre abbiano una passione per gli anni ’70 lo si può intuire dalle coroncine di fiori bianchi intrecciate nei capelli delle ragazze, ma anche dal livello di “fattanza hippie” che i tre esprimono in pensieri, parole, opere e tentativi di cadermi addosso.
La fattanza hippie, per i non addetti ai lavori, si distingue dagli altri tipi di alterazione psicofisica per la fastidiosa prevalenza di gesti prevaricanti e imbarazzanti quali abbracciare il prossimo, barcollare sorridendo come ebeti, fare il segno della pace con due dita e buttare indietro la testa colpendomi con la nuca sul naso.
Il maschietto del gruppo non ha fiori fra i capelli.
Indossa invece un cappellino da baseball e a un certo punto, evidentemente dispiaciuto del fatto di non sembrare un idiota quanto le sue compagne, lo gira di 180 gradi, riuscendo immediatamente a surclassare le ragazze sul campo del ridicolo.
Niente può far sembrare un maschio di homo sapiens sapiens un perfetto imbecille quanto il buco posteriore del cappello in mezzo alla fronte.
Da quel buco ti colano via all’istante almeno cinquanta punti di QI anche se sei Stephen Hawking e tu, amigo, non sei Stephen Hawking.
Io sono una persona estremamente insofferente, eppure – me ne darete atto – fino a questo punto mi sono limitata a borbottare come un vecchio davanti a un cantiere stradale, senza molestare il mio prossimo nonostante le scelte estetiche del prossimo in questione mi abbiano provocato fitte di quello che i tedeschi chiamano Fremdschämen (letteralmente “vergognarsi per qualcun altro”).
È al culmine di un concerto strepitoso che, finalmente, i miei nervi crollano e mi concedo un unico, piccolo ma significativo atto di ribellione.
La coppia hippy decide finalmente di sbattersene dell’amica e si abbandona a tutte le effusioni possibili e immaginabili a tempo di musica.
D’altra parte non hanno neanche torto: hai a tua disposizione Squalor Victoria suonata dal vivo, puoi forse perderti l’occasione di ballarla come se fosse The Time of My Life?
Lui prende lei in braccio, lei gli avvolge le gambe intorno alla vita, lui la fa girare vorticosamente spazzando gli astanti e facendo innalzare bestemmie in almeno cinque lingue e tre dialetti e poi commette il crimine.
Fa quella cosa che istantaneamente ti fa odiare da tutti meno che dalla tua fidanzata: la prende in spalla per farle vedere meglio il palco.
Ed è in quel momento che io decido che è ora di iniziare la rivoluzione e, travolta dal sacro fuoco della lotta all’ingiustizia, lancio in direzione della ragazza e della sua stramaledetta coroncina di fiori un fazzoletto usato.
Ok, lo ammetto, è un gesto fortemente anticlimatico e i toni sarebbero più adatti se le avessi lanciato almeno una bottiglietta d’acqua piena.
Ma nonostante le apparenze sono contraria alla violenza fisica.
E comunque ha funzionato: lei si gira con l’occhio velato del ruminante, si guarda intorno.
Lui si accuccia per terra e la fa scendere.
Vittoria.
Applausi.