Storia di un Paese senza festival
«Ma che genere fa? Non lo conosco? Che vado a fare al concerto se non conosco nessuna canzone? Sicuramente mi annoierò, magari non mi piace»
Tempo fa, sul canale Youtube di Enrico Silvestrin, Claudio Trotta, decano dei promoter italiani e fondatore di Barley Arts, spiegava perché sia impossibile avere in Italia manifestazioni paragonabili ai più grandi festival europei – Glastonbury, Primavera Sound, Lollapalooza, Rock en Seine, Roskilde, Sziget per citare i primi che vengono in mente (clicca qui per il video dell’intervista, ndr).
Ciò che scriverò nelle prossime righe è ad uso e consumo di chi non è uso frequentare festival.
Gli altri possono saltare il prossimo paragrafo e riprendere da dopo i punti elenco.
Per chi leggendo le prime quattro righe ha pensato «ma anche noi in Italia abbiamo i festival, ci sono Firenze Rocks, gli I-Days, Rock in Roma» preciso che i festival di cui si parla:
- si svolgono in giorni consecutivi, lungo un arco temporale che va dai tre ai sei giorni;
- sono organizzati in spazi sufficientemente ampi da consentire la presenza di più palchi ed esibizioni in contemporanea;
- in cartellone, accanto a nomi mainstream pop e rock, si dà ampio spazio a molti generi diversi tra loro. Dall’alternative rock, dall’elettronica, alla world music, al rap e all’hip pop, al crossover, all’afrobeat, all’electropop, al metal, ai dj set notturni e via dicendo. Ogni giornata vede l’esibizione di parecchie decine di band. Questi eventi creano occasioni per scoprire nuovi artisti con i quali diversamente sarebbe difficile entrare in contatto. In poche parole, fanno cultura, ed è un gran valore aggiunto;
- prevedono spesso la presenza di eventi extramusicali; danza, teatro, spettacoli di buskers e circensi, dibattiti e incontri su temi extramusicali;
- organizzano attività collaterali, ludico-ricreative. Prevedono spessissimo anche la presenza di miniclub; spazi per bambini, kindergarten, con personale di animazione qualificato;
- si vive ininterrottamente di musica, per ore. I concerti cominciano dal primo pomeriggio e vanno avanti a notte inoltrata;
- i festival sono cashless, ma i token non sanno nemmeno cosa siano. All’entrata forniscono un braccialetto con un microchip che può essere caricato con moneta elettronica. Il caricamento può effettuarsi attraverso la app dedicata;
- spesso è possibile alloggiare presso strutture convenzionate – ostelli, hotel, campeggi – in aree adiacenti, o in prossimità alle zone dei concerti. Alcuni festival allestiscono appositamente aree adibite al camping, dismesse a evento concluso;
- generano indotto per la città che li ospita. Sono meta di persone che arrivano da tutto il mondo, che li inseriscono all’interno dei loro tour vacanzieri. Per questo sono accolti nel contesto urbano e sociale della città che li ospita e godono di diverse facilities: abbonamenti scontati per i mezzi pubblici, partnership con cooperative dei taxi (a Roma sarebbe più facile vedere Totti allenare la Lazio), sconti per la visita di attrazioni turistiche, musei, ristoranti. E gli abitanti della città li vivono come un’opportunità e non come un fastidio.
Conclusione: si è parlato tanto in questi mesi estivi della possibilità che una tappa del Primavera Sound possa sbarcare in Italia, con Torino e Milano interessate.
Ma in attesa che questa ipotesi diventi qualcosa di più, si evince che molti di quelli che in Italia ci vendono come grandi festival rock, non lo sono.
Molti, ma non tutti, fortunatamente: alcune eccezioni ci sono anche da noi.
Realtà medio/piccole di provincia che osano a loro rischio e pericolo, spinti prevalentemente, se non esclusivamente dalla passione per la musica.
E’ il caso dell’Ypsigrock di Castelbuono, gioiello incastonato nelle Madonie a mezz’ora da Cefalù, giunto alla ventiseiesima edizione con gli abitanti felici di incontrare e accogliere giovani di diverse nazionalità; del Disorder Fest, giunto all’undicesima edizione, che porta bellezza e vita nei paesini altrimenti dimenticati della provincia di Salerno; del TOdays, appuntamento imperdibile per gli amanti dell’alternative rock che per tre giorni restituisce vita alla zona più abbandonata e degradata di Torino; di tante altre piccole e virtuose realtà che non cito solo per motivi di spazio.
In passato c’è chi ha provato a sfidare e uccidere il Drago.
Su tutti il Sonoria, a Milano dal 1994 al 1996 nell’area del Parco Acquatica, che nell’ultima edizione portò sessantatre band (se ho ben contato), distribuite su tre palchi, in tre giornate di festival.
Cito in ordine sparso: Rage Against the Machine, Sepultura, Orbital, Nick Cave and the Bad Seeds, Placebo, Afterhours, Marlene Kuntz, Iggy Pop, Moby, Tiromancino, Fun Lovin’ Criminals, Lush, No Doubt, Stiff Little Fingers.
E avrebbero suonato anche i Foo Fighters se non avessero dato forfait pochi giorni prima.
Finì tutto dopo pochi anni: l’assenza di supporto da parte dell’amministrazione comunale, dissuase Claudio Trotta dal proseguire l’esperienza.
Ma anche il mai dimenticato Rototom Sunsplash, il festival reggae più grande d’Europa: si autofinanziava, promuoveva lo scambio e l’incontro tra culture diverse, il rispetto dei diritti umani, la libertà e la pace.
Nacque a Spilimbergo, in Friuli-Venezia Giulia nei primi anni Novanta: fu spostato poi sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro, ma fu costretto ad emigrare a Benicassim in Spagna in seguito a una “campagna di abuso e demolizione” contro il festival e l’apertura di un’inchiesta per supposta violazione della legge Fini-Giovanardi (sì, avete letto bene).
Nel 2014 la suddetta legge fu dichiarata anticostituzionale e il 13 maggio del 2015 il direttore del festival, Filippo Giunta, fu assolto dalla giustizia italiana da tutte le accuse.
Ma era troppo tardi, il Rototom era ormai uscito dai confini nazionali e, ironia della sorte, aveva ricevuto il riconoscimento e patrocinio dell’UNESCO come “Evento Esemplare per il proprio lavoro di promozione della Cultura di Pace e della Nonviolenza”.
Fine.
Basterebbero queste due storie per chiarire il motivo per cui in Italia non abbia mai preso piede la cultura dei festival.
Ma c’è altro da aggiungere: la pigrizia, atavica, del pubblico italiano, esemplificata dal virgolettato in apertura del pezzo, che sfido chiunque a non aver mai sentito pronunciare o a non aver mai pronunciato.
La maggioranza del pubblico italiano va a vedere solo concerti di artisti che già conosce o dei quali è fan.
Claudio Trotta di Barley Arts racconta di due ragazze che nel 1996 gli chiesero il rimborso del biglietto del Sonoria quando, due giorni prima dell’evento, fu annunciato il forfait dei Foo Fighters: «abbiamo preso il biglietto solo per loro, delle altre band non ci interessa».
Il punto 3 del precedente elenco è saltato a piè pari, salvo poi sorprendersi a dire «grazie mille per avermi portato qui. Non li conoscevo, sono davvero forti».
È importante invece ricordare che una gran parte dei biglietti di quasi tutti i grandi festival è venduta mediante early birds, quando ancora non si conosce il cartellone delle band.
La pigrizia nella fruizione della musica di parte del pubblico di casa nostra porta, poi, provincialismo e stagnazione nelle scelte di ascolto. Se escludiamo i fenomeni del pop internazionale (gli ultimi in ordine di apparizione nel 2023: The Weekend, Travis Scott, Taylor Swift, Imagine Dragons, Harry Styles e via discorrendo), i gusti della maggioranza si orientano esclusivamente, o quasi, verso artisti di casa nostra la cui presenza intasa i canali che raggiungono chi fruisce della musica con un flusso unidirezionale.
A conferma, spesso le classifiche hanno i primi dieci posti occupati da canzoni italiane, e restano immutati per mesi.
La passività davanti alla musica ha trasformato la stessa in un sottofondo. Si va ai concerti in quanto eventi di per sé, per condividerne l’esperienza con i video in tempo reale sui social: l’importante è esserci e, soprattutto, che la bolla social sia testimone della presenza. Protagonista non è la musica, ma il fan – di sé stesso soprattutto – che usa lo smartphone come barriera tra sé e la musica, o che passa il tempo del live a parlare dei fatti suoi con amiche e amici.
Questo tipo di pubblico si posiziona agli antipodi della cultura dei festival; questo tipo di pubblico la musica non la ascolta.
Ciliegina sulla torta, in alcuni casi, le carenze organizzative e strutturali delle città.
Immaginiamo cosa vorrebbe dire organizzare un festival di tre giorni e sessantamila presenze quotidiane nella periferia di Roma in termini di trasporti e trasferimenti.
Dopo i concerti a Capannelle si possono impiegare tre ore solo per uscire dal parcheggio, a meno che non si scelga di lasciare l’auto a un chilometro di distanza.
Completano l’opera le file di ore ai punti di ristoro, i prezzi esorbitanti anche solo dell’acqua e l’uso dei token.
Eppur (qualcosa, forse) si muove!
Lo racconto parlando dello Spring Attitude Festival 2023.