Se i concerti sono come i dischi – da Steve Albini ad Adriano Panatta. Vogliamo i concerti suonati male
Era un giorno piovoso, d’autunno o d’inverno dipende dal capriccio della vostra immaginazione. Una caffetteria universitaria, tra una lezione e l’altra o al posto di una lezione. Il rumore del vapore della macchina del caffè a mescolarsi alle chiacchiere di studenti, assistenti, dottorandi. I professori no, avevano i loro ritrovi. A guardarmi e parlarmi era una ragazza elegante; charme in esubero, il distaccata il giusto; quell’aristocrazia poco italiana di modi che però lascia aperto quello spiraglio attraverso il quale puoi scorgere le vaporose volute della sua carica passionale. «Giulio, una donna è spesso attirata da un uomo bello e magari ci va anche a letto, ma quando perde la testa e impazzisce d’amore è quasi sempre per un uomo brutto».
Non mi chiesi se potesse trattarsi di un messaggio trasversale ad personam, rimasi nell’illusione come sono tuttora. Non appartenendo alla categoria degli adoni, conclusi che tra il piacere a tutte o il farne impazzire una mi era toccata in sorte la seconda alternativa; me lo feci bastare. In quel momento, a impazzire ero io.
Queste parole tornarono con periodicità a stuzzicare il mio timpano interno nei momenti più disparati, talvolta inattesi. L’ultimo pochi giorni fa, quando il profilo social dei Nirvana ha diffuso la lettera che Steve Albini scrisse loro in risposta alla richiesta della band di partecipare alla produzione di “In Utero”. È stato questo il modo per ricordarlo all’indomani della morte del musicista e ingegnere del suono, denominazione che preferiva a quella di “produttore”.
La missiva, di quattro pagine, è il concentrato del suo approccio alla professione che merita di essere riassunto
La condizione necessaria e imprescindibile per lavorare con lui era l’assenza completa di ingerenze da parte della casa discografica. Assunto di base era la centralità assoluta della band all’interno del processo creativo e produttivo. Il disco avrebbe dovuto riflettere fedelmente la percezione della band riguardo la propria musica e la propria esistenza.
«Se sarà questo il principio che manterrete durante la lavorazione, allora mi farò il culo per voi».
Il disco doveva essere della band, l’unica responsabile del risultato finale. Per questo Steve Albini rifiutava qualsiasi royalty sulle vendite.
«Pagatemi come se fossi un idraulico. […] È eticamente inaccettabile per me avanzare pretese sui diritti d’autore. Non dormirei la notte se prendessi tutti quei soldi. Sono i fan della band e non i miei che comprano i dischi»
L’intervento del produttore avrebbe quindi dovuto essere limitato al minimo indispensabile. Spontaneità e immediatezza, naturalezza e nessuna artificiosità.
«Se un disco richiede più di una settimana per essere realizzato, allora qualcuno sta facendo un casino. […] Nessuno deve dirvi cosa suonare e come suonarlo, nemmeno io. Nessun intervento di remix, nessuna rielaborazione di sequenze, nessun editing»
Il lavoro di Albini stava soprattutto nell’attenzione maniacale per la disposizione dei microfoni in studio, nel capire come sfruttare i riverberi naturali, nel rendere il suono del disco quanto più fedele possibile al suono live della band. Per questo motivo lavorava registrando in presa diretta, con tutti i componenti della band a suonare simultaneamente, come durante un concerto. Il disco doveva rappresentare quanto più possibile il suono della band dal vivo. Per la stessa ragione registrava quasi sempre “one shot”, una sola esecuzione del pezzo che poi finiva nel master, anche con errori esecutivi presenti.
Qui arrivo al punto: Albini quasi auspicava lo sbaglio umano, il caos, l’incidente nell’esecuzione, la fallibilità.
«L’errore non lo cancello; lo valorizzo. Se ogni elemento della musica e le dinamiche di una band sono controllati da click, computer, mix automatizzati, campionatori e sequencer, allora il disco potrebbe non essere male, ma certamente non sarà eccezionale»
L’emozione, l’autenticità, la credibilità e l’umanità, il coinvolgimento dell’ascoltatore stavano proprio lì. La bellezza è imperfezione. Steve Albini si sarebbe trovato d’accordo con la mia amica.
Intanto, via via che leggevo la lettera di Albini, dopo l’immagine della mia amica si formava il ricordo di alcuni concerti mainstream ai quali ho assistito nell’ultimo anno; e subito dopo quello della conversazione a colpi di vocali da 5 minuti, avuta con un amico, musicista e autore di quelli unanimemente riconosciuti come bravi. Era il 2 maggio, a meno di ventiquattr’ore di distanza dal tradizionale happening nazional-sindacale.
Avrei ascoltato volentieri il parere del produttore americano. Perché, se Albini si preoccupava di far suonare i dischi come i live, con il mio interlocutore concordavamo che oggi, la preoccupazione di etichette, produttori e artisti è quella di far suonare il live come i dischi. La parola d’ordine è diventata “perfezione”. Intonazione e i cali di voce, un tempo incubo di qualsiasi performer e front man, non sono più un problema: ci pensano autotune o backing vocals, ma se le chiamassimo playback non ci allontaneremmo di troppo dalla realtà.
Sequencer e computer la fanno da padrone sul palco come in studio. Le drum machine sono spesso affiancate dai sampling pad, braccia umane ma suoni campionati. A volte i pad sostituiscono i tom nella batteria tradizionale; e anche se rimangono le pelli, possono arrivare i trigger in soccorso e sincronizzare il tutto con gli altri strumenti elettronici. A volte il suono della batteria non si sente più. Si suona sempre più con il click in cuffia. L’umanità delle sfumature timbriche e dinamiche svaniscono nell’appiattimento e nell’uniformità dei software.
Tecnologie avanzatissime di processamento consentono di parlare di suono immersivo, iperreale. Vengono pompate soprattutto le frequenze sotto gli ottanta Hertz, che inducono con maggiore facilità fenomeni di trance e “sottomissione” al celebrante che officia il rito sul palco. Il live mette il vestito buono, impeccabile, confezionato al meglio un disco appena uscito dallo studio più sofisticato e all’avanguardia.
Attenzione, in diversi casi il risultato è comunque di qualità. Un bel pezzo resta un bel pezzo, un talento resta un talento. Ma il caos, l’imprevedibile, l’incidente di percorso non fanno più parte del gioco. Nulla è lasciato al caso. Nella setlist dei Muse sono conteggiati al secondo anche gli intermezzi di passaggio tra un brano e l’altro. Dan Reynolds degli Imagine Dragons ripete gli stessi movimenti e gli stessi gesti nello stesso momento, concerto dopo concerto. E sono solo due esempi tra i tanti
La sensazione è quella di assistere alle esibizioni dei primi della classe. Uno show bello e inappuntabile, nulla da dire. Ma uniforme, senza pathos, senza picchi o baratri, meccanico; a volte noioso. O comunque uniformato al cliché che va per la maggiore, indistinguibile dagli altri. Non emerge mai, o quasi, l’unicità e la personalità di chi si trova sul palco. I primi della classe si assomigliano tutti fra loro, si fanno ammirare, ma ti tengono a distanza e non fanno innamorare, fan base escluse.
La mia amica avrebbe detto: «Un concerto che piace a tanti, ma fa impazzire pochi». Un concerto che non ti fa diventare fan degli artisti o delle band, come poteva accadere in passato. Oggi i fan si “costruiscono” a tavolino prima dei live e arrivano ai live belli cotti a puntino. Conviene a tutti: agli artisti perché hanno garanzia di ovazione, all’industria musicale perché oltre ad essere cotti a puntino arrivano anche alleggeriti nei loro portafogli. Sottolineo che ci sono rari casi di uscita dal coro. Ma appunto di eccezioni trattasi
Mentre il mio amico e io giocavamo a mandarci bordate di vocali che nemmeno Sinner e Medvedev a Melbourne, mi divertivo a ricercare video di estratti di alcuni concerti dei Nirvana pre “Nevermind”. Vedevo i discoli, i reietti messi dietro alla lavagna, altro che primi della classe; i Franti e non i Derossi. Sentivo nelle narici la puzza di sudore di anni e anni passati dentro sale prove che puzzavano di muffa. Una delle band più influenti della storia del rock che si portava dietro quell’odore, quelle storie, quella carica, quella rabbia e quei sogni.
La band suonava sporco, disordinato, addirittura male se prendiamo a riferimento i classici canoni estetici, ma arrivava in piena faccia come un treno ad alta velocità. Cobain non voleva piacere a tutti. Anzi, era irritato dal vedere ai live della band fan che lui non avrebbe mai voluto (si veda il testo di ‘In Bloom’). Suonava semplicemente quello che lui stesso era. Senza compromessi. Caricando il loro suono di quel disagio che stava divorando la sua anima, che Steve Albini voleva fosse il protagonista di “In Utero” e senza il quale è inutile per ogni artista contemporaneo, anche il più talentuoso, anche solo pensare di avvicinarsi alla band di Seattle.
Assistere a un concerto dei Nirvana, non era divertente, ti cambiava. Uscivi dal live che non eri più lo stesso di prima.
Questo era il rock: uno sberleffo, una macchia d’inchiostro su una camicia bianca che non ti saresti più tolta per tutta la tua vita. Perché quella macchia eri tu. La voce di John Lennon al limite della frantumazione alle 5 di mattina, subito dopo aver bevuto l’ultimo whisky e subito prima di incidere Twist and Shout; è Jimmy Page che utilizza quasi sempre la prima versione dei suoi soli; è il cigolio del pedale della cassa di John Bonham che si sente all’inizio di ‘Since I’Ve Been Loving You’, registrata in presa diretta durante una session di prove; è Ian Curtis dei Joy Division, o Nick Drake.
Infine, dopo Steve Albini, la mia amica dell’università, il mio amico musicista ho pensato ad Adriano Panatta e al suo cameo ne “La Profezia dell’Armadillo”.
«Non vi divertite, non volete sognare, pensate solo a portare a casa il risultato. Avete perso il senso del gioco, dell’armonia […] Ma tu non puoi capi’, perché non te ne vai? Ricorda: armonia, rumore, musica…»
Poi tre sere fa una persona importante mi cita Frida Kahlo: «Non affannarti a cercare di farti comprendere da chiunque. Solo chi ha un’anima uguale alla tua ti comprenderà».
Prendo il laptop, entro in un locale, chiedo da bere e la password del wifi, scrivo.
Ps. Dopo aver ascoltato i brani, i boss della Geffen provarono a entrare a gamba tesa nel processo di produzione di “In Utero”, chiedendo alla band di rifare tutto il mix. Alla fine, i brani remixati furono solo ‘All Apologies’ e ‘Heart Shaped Box’.