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Riflessioni non richieste su Sanremo, Ultimo Concerto e il futuro della musica live

La settimana sanremese si è appena conclusa eppure ciò non basta per voltare pagina, chiudere la parentesi ed andare avanti.
Per questo, con la consapevolezza di affiancare due argomenti ben diversi tra loro, ecco qualche riflessione non richiesta.
Sì, ancora su Sanremo.
Soprattutto, però, su L’Ultimo Concerto.

Assieme ai talent, la gara canora più longeva d’Italia è uno dei soggetti che tessono le fila di classifiche e uscite discografiche, influenzando di fatto l’andamento della musica in Italia.
Infatti è anche grazie alla kermesse ligure che, soprattutto negli ultimi anni, siamo venuti a contatto con figure delle quali avremmo volentieri fatto a meno.
Sanremo aveva bisogno di trasformarsi: serviva un contenitore più moderno, al passo col cambiamento dei tempi e delle tendenze musicali.
Eppure, sebbene il cambiamento ci sia effettivamente stato, questa 71/a edizione è riuscita a far rimpiangere figure storiche quali Al Bano.

Che cosa non ha funzionato in questo Sanremo 2021?
Lei, la protagonista assoluta: la musica.

Sanremo da sempre incarna “la canzone italiana”.
Ci può piacere o meno, questo non importa: è un discorso che esula dai gusti personali e va ben oltre ciò che ascoltiamo abitualmente nel nostro privato.

Il sound di Sanremo è da sempre pop, leggero – e risponde a determinati standard.
Standard che ergono a vincitore chi li rispetta e li incarna.
Tra i 26 nomi in gara mai come quest’anno abbiamo incontrato troppi brani privi di quello che potremmo definire come lo spirito sanremese.
Un calderone di stili senza capo né coda.

I Maneskin, vincitori senza troppa sorpresa, come possono gareggiare in una competizione che li vede affiancati ad Orietta Berti e Aiello?
Cosa ci fa una Madame all’Ariston, a cantare un brano del cui testo non si comprendono nemmeno le parole mentre “canta”?
Il paradosso è che per un capriccio edonista («canto una dedica alla mia voce», sebbene sia la prima cosa a non essere pervenuta nelle sue esibizioni) sia stata addirittura premiata come “Miglior testo Sergio Bardotti”.

Insomma, Sanremo non è più Sanremo e un po’ sicuramente è anche colpa nostra.

Lo volevamo svecchiato, più giovane e in linea con i nomi del mercato.
Eppure, fare parte del mercato non implica che un artista abbia talento, sia bravo a cantare (quanti svociati, in questa edizione?) o sia più semplicemente un interprete in grado di lasciare il segno.
Il dramma è che a scegliere chi mandare avanti e chi no siano gli ascolti Spotify o le visualizzazioni su Youtube, lasciando di fatto in mano ad un pubblico inadatto la scelta di cosa spingere e cosa no.

Hanno vinto i Maneskin?
No, hanno vinto gli ormoni delle adolescenti seguiti dagli ormoni delle madri.

È un dato di fatto che si evince leggendo i commenti lasciati dalle fans nei social sotto le foto della band romana.
Giovani e provocatori, sicuramente i quattro hanno ben imparato l’arte del far parlare di sé, sempre e comunque – d’altronde, anch’io sto facendo il loro gioco.
Fermo restando che per qualche motivo a me sconosciuto non mi dispiace la loro supponenza, i Maneskin giocano un po’ troppo.
E si sono resi da soli schiavi di un’estetica che li ha oggettivizzati.
Questo è il motivo per cui le eventuali abilità tecniche passano ovviamente in secondo piano rispetto ad un pene stretto tra le mani e pubblicato su Instagram, in favore di un certo pubblico affamato, pronto a soddisfare gli occhi piuttosto che le orecchie.

I Maneskin, vincitori della 71/a edizione del Festival di Sanremo

L’unico momento realmente importante riguardo la musica lo si deve alla serata dei duetti.
Grazie all’esibizione de Lo Stato Sociale con Emanuela Fanelli e Francesco Pannofino si è data voce, di nuovo, al dramma dei lavoratori del mondo dello spettacolo.

Bloccati e in difficoltà da un anno, dopo il lockdown musicisti, tecnici e addetti del settore sono letteralmente finiti nel dimenticatoio.
Senza aiuti concreti, senza risposte, senza un salvagente al quale aggrapparsi nel mezzo di un maremoto che non vede nemmeno oggi un orizzonte di speranza.

Sanremo è iniziato un paio di giorni dopo “L’Ultimo Concerto“, evento che ha fatto discutere dividendo tra loro i fruitori abituali di musica live.
Dopo una grande campagna mediatica che ha visto coinvolti diversi artisti e locali (ormai sull’orlo del collasso), al posto di un ultimo ed ideale concerto in streaming sono andate online le voci di protesta del settore.
Voci che chiedono supporto e inclusione perché la battaglia per non far morire i club riguarda sì loro, ma anche noi.
L’ipotesi che vede fallire i live club delle nostre città è concreta: se chiudono, quali spazi ci rimangono per assistere ad un concerto?


Credo che la scelta di andare online con “L’Ultimo Concerto” a ridosso del Festival non sia stata casuale.
Ma a kermesse conclusa, la domanda è una sola: perché Sanremo sì e i locali no?

Perché Sanremo va in televisione.
È RAI.
Ed è una macchina per soldi, basti pensare al Comune di Sanremo che intasca per convenzione circa 5 milioni lordi a edizione.

Nonostante il tira e molla iniziale sulla questione “pubblico in sala sì – pubblico in sala no”, Sanremo ha messo a stretto contatto un numero non indifferente di persone.
Basti pensare ai conduttori, i concorrenti, l’orchestra, tutti i tecnici dietro le quinte, gli entourage dei cantanti e tanti, tanti altri ancora.
Tamponi e mascherine, distanziamento e regole ferree non hanno tuttavia impedito a membri dello staff di Irama di contrarre il virus ma parliamo di due persone su quante, in totale?

Questa è la possibilità che viene negata ai locali: non quella di lavorare di nuovo, bensì quella di provare a farlo.

La lista dei club in difficoltà è lunga e noi la conosciamo bene.
Siamo cresciuti tra le mura di Hiroshima Mon Amour, Druso, Latteria Molloy, Alcatraz, Magazzini Generali e tanti altri ancora.
Non è importante quanto sia grande o meno un locale, sarebbe fondamentale però pensare ad una rinnovata capienza massima di utenti tale da poter consentire con efficacia accessi, controllo e rispetto delle normative vigenti.
OTR Live è il solo management che con coraggio ha saputo regalare dignità al settore della musica dal vivo durante la scorsa estate, segnale che volere è potere.
Molti hanno criticato la scelta de L’Ultimo Concerto di andare online senza uno spettacolo musicale.
Non si può dar torto e criticare il non-concerto: è uno dei tanti modi con i quali si cerca di sensibilizzare il pubblico.

La musica non è solo Spotify o Youtube, la musica è soprattutto palcoscenico.
E palcoscenico significa live club.
Torniamo a dare vita e dignità a chi ci ha regalato emozioni e ha contribuito alla creazione dei ricordi della nostra vita. 

Nella prima settimana post Festival restano amarezza e dubbi conditi da poche certezze.
Esistono due pesi e due misure a seconda di interessi economici: finché il portafoglio non è il tuo, non è importante se si svuota e non arrivi a fine mese.
E ancora, se in una classifica che tra 26 cantanti in gara  Orietta Berti raggiunge il nono posto, io due domande me le farei…

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