Perché il pubblico dei concerti è ormai diventato una mucca da latte
ANALISI (SEMI)SERIA, DA MALCOLM McLAREN AGLI AUTOGRILL
Accessibilità, costi e servizi: conti in tasca al pubblico che non vuole rinunciare ai concerti
Diavolo di un Malcolm McLaren, non gli bastò rovinare l’esistenza a schiere di “Riccardoni”. Come racconta Luca De Gennaro nel suo “Generazione Alternativa”, una sera d’inverno del 1992 sedeva da solo in un angolo di un bar di Cannes. Era lì per il Midem, la fiera annuale dell’editoria musicale che si tiene ogni anno nella cittadina della Costa Azzurra (per saperne e capirne di più si legga John Niven, “Uccidi i Tuoi Amici”; Einaudi).
«Sono qui da qualche giorno e ho capito una cosa. Nella musica tutto sta cambiando e sono convinto che la canzone abbia perso la sua centralità. D’ora in poi le canzoni da sole, incise su disco, non significano più niente. Hanno e avranno senso di esistere solo se accoppiate a qualche altro veicolo mediatico, qual esso sia non importa: un film, una serie tv, una sfilata di moda, uno spot pubblicitario, un video, una installazione. Le canzoni diverranno il valore aggiunto al servizio di altri obiettivi extramusicali e potranno alimentarsi a vicenda con gli altri media».
Dopo aver letto questo passaggio, ho il ragionevole dubbio che l’inventore dei Sex Pistols, il produttore e musicista inglese, sia Marty McFly sotto mentite spoglie. Primo esempio che mi viene in mente. Anno 2022; la canzone ‘Running Up The Hill’ di Kate Bush, pubblicata nel 1985, è inserita in una serie di grande successo come “Stranger Things”, finisce in vetta alle classifiche di Spotify e di mezzo mondo, a 37 anni dalla sua uscita.
Ma Malcolm McLaren tacque su altro. O per non spaventarci, o perché non lo avremmo capito. Sapeva, ad esempio, che nella seconda decade degli anni Duemila, avrebbero preso forma e vita alcuni particolari veicoli di musica, all’interno dei quali la stessa avrebbe, una volta per tutte, abdicato alla sua centralità per consacrarsi come agnello sacrificale nei riti di celebrazione delle nostre individualità e delle nostre vite: i social network. Si lo so che avevate capito, ma non si sa mai. Le conseguenze nel mondo della musica sono diverse, oggi ne prendiamo in esame solo due.
Il primo: l’azzeramento del coefficiente “r” di correlazione tra qualità e successo. Perché band e artisti abbiano grande riscontro di pubblico non serve più fare un gran disco o avere i pezzi. Basta diventare virali attraverso un’attenta strategia di presenza sui social. Un bravo social media manager individua i canali giusti in cui inserirsi e al resto pensiamo noi, che a colpi di condivisioni e click spariamo la band nell’empireo della musica mondiale. L’hype generato si ripercuote anche su una componente fondamentale sia per gli artisti che per l’industria che gira loro intorno: i concerti, in tempi di piattaforme di streaming l’unica fonte di entrata rimasta connessa direttamente con l’attività musicale.
Il secondo: la trasformazione dei live nella percezione del pubblico. Ovvero, il passaggio da bene superfluo a bene di prima necessità. Oggi si è ultimato il passaggio dal cartesiano penso, dunque sono al pubblico, dunque sono di Zuckerberg. La costruzione dell’identità sociale e, in alcuni casi anche individuale, passa attraverso gli status, le storie, i reel, le foto. In questo scenario, l’importanza di un concerto, travalica il semplice ascolto della musica, e assume rilevanza attraverso il contributo fornito al rafforzamento dell’immagine che diamo sia agli altri che a noi stessi.
«Se la mia bolla facebookiana fosse reale, al concerto dei Fontaines DC ci sarebbero state non meno di 157.047 persone», ha scritto sul social di colore blu qualcuno che nel mainstream musicale ha lavorato per decenni. «Se non ci fossero i social, il 90% di noi farebbe altro», disse anni fa il base jumper Maurizio De Palma. Si può fondatamente aggiungere che i concerti avrebbero la metà del pubblico di oggi e costerebbero un terzo.
Quest’ultimo punto realizza compiutamente della profezia di Malcolm McLaren, la musica assume rilevanza solo se associata a uno spot pubblicitario: quello di noi stessi. E la band o l’artista che si sta esibendo sul palco diventa il nostro testimonial. Mica male.
Perché uno spot sia efficace deve avere una cornice adeguata. Nella costruzione dello scenario interviene anche la scelta del luogo. A Roma, il Circo Massimo è ormai una sala concerti. Stesso discorso per gli stadi, un tempo rare eccezioni, oggi una costante, o quasi. E se non sono arene, sono comunque spazi sempre più grandi, talvolta in periferie difficili da raggiungere e poco adatti ad ospitare eventi musicali. Però, sicuramente perfetti per creare attesa, solennità, imponenza e gratificare l’ego non solo degli artisti, ma anche del pubblico. Ma i testimonial li paghi cari. Lo sanno i pubblicitari e nel nostro caso lo sanno anche band e promoter che surfano l’onda. Il pubblico dei concerti e dei festival è una slot machine che fa uscire costantemente la combinazione del jackpot.
E allora entriamo nel casinò e giochiamo anche noi. Partiamo dai prezzi dei biglietti e andiamo indietro con gli anni. Nel 1988 i Pink Floyd tornavano in Italia dopo diciotto anni e diverse decine di milioni di dischi venduti in più. Il costo del biglietto era di trentamila lire, cifra per la quale gli algoritmi di conversione stimano un valore attuale di 40 euro. Due anni dopo si scatenarono polemiche piuttosto accese con il “Sound & Vision Tour” di David Bowie, che fu il primo a toccare quota cinquantamila lire (58 euro odierni). In entrambi i casi posto unico, senza aree riservate o zone vip. Arrivavi presto, piazzavi uno sprint alla Usain Bolt all’apertura dei cancelli e ti guadagnavi il tuo posto in transenna.
Senza bisogno di ritornare al 1971 e al Vigorelli di Milano messo a ferro e fuoco prima e durante il concerto dei Led Zeppelin (biglietto a 1500 lire, attualmente pari a 15 euro), a guardare i prezzi di oggi, al netto di commissioni e prevendita, vengono i brividi. Il pit di Lana Del Rey agli I- Days a Milano lo si acquistava per € 109,71. Quello dei Tool a Firenze € 86,25 e passava la paura. Per i Coldplay all’Olimpico di Roma il prato sono € 109 e il primo settore numerato € 172. Per il “prato A” di Bruce Sprinsgteen a San Siro l’esborso è stato di € 149,50. David Gilmour, al Circo Massimo, ne chiede 245 per le poltronissime. Nel mentre, c’è chi decide di bruciarsi tutto il bonus docenti per il 2024 in concerti.
Queste cifre si gonfiano, e di parecchio anche, con i diritti di prevendita, le commissioni di servizio, il fan ticket personalizzato e l’assicurazione in caso di impossibilità di partecipazione all’evento che è opportuno stipulare se si acquista un biglietto con un anno di anticipo sul concerto¹. Intendiamoci, finché ci saranno i sold out i promoter avranno ragione, ai fan sta bene così².
Fine delle spese? Nemmeno per idea. Perché non è il costo dei biglietti il principale motivo dello scontento degli spettatori. Durante gli ultimi mesi nella mia bolla social, la rabbia, le lamentele e le incazzature per le pessime organizzazioni delle rassegne hanno superato gli insulti a Luciano Spalletti e ai calciatori della Nazionale. E qualche volta capita anche a me di ripensare a quando, per una brodaglia spacciata per cappuccino in una stazione di servizio sul Raccordo Anulare, mi chiesero il doppio di quanto avrei pagato in un qualsiasi altro bar.
Afflusso e deflusso del pubblico, metodi di pagamento, livello dei servizi, attese infinite, qualità del cibo e prezzi dei generi di prima necessità sono finiti sul banco degli imputati. Sono lamentele che hanno ragione d’essere o è il classico vittimismo italiano? Cosa succede nel resto d’Europa? Abbiamo confrontato alcune tra le principali rassegne dal vivo italiane (in alcuni casi è improprio chiamarli festival) e quattro tra i maggiori festival europei: il Primavera, il Nova Rock, il Lollapalooza e lo Sziget, raccogliendo testimonianze dirette da abituali frequentatori. Non abbiamo considerato i cartelloni: ci siamo concentrati su servizi, facilities, accoglienza e logistica.
Sono stati tenuti fuori i festival medio/piccoli, che paradossalmente, ma non troppo, per cartellone e modalità organizzative sono quelli che più si avvicinano al concetto di festival qual è inteso nel resto d’Europa, ma che ogni anno devono scontrarsi con una burocrazia che sembra esser pensata per render loro la vita impossibile. Un nostro approfondimento lo trovate a questo link – Storia di un Paese senza festival.
Abbiamo escluso anche Glastonbury: non ce la siamo sentita di paragonare il Real Madrid con l’Albino Leffe.
Ma per scoprire promossi, bocciati e rimandati dovrete attendere ancora un po’.