Non mi avete fatto (provare) niente
Del perché la canzone vincitrice di Sanremo 2018 racconta una storia del tutto diversa da quello che si crede.
La canzone vincitrice di Sanremo 2018 al momento è anche al comando delle classifiche di vendita su iTunes.
Il duo composto da Ermal Meta e Fabrizio Moro ha attraversato vittoriosamente le forche caudine del rischio esclusione per plagio ed ha trionfato anche grazie al traino del messaggio contenuto nel brano.
Coadiuvati dalla penna di Andrea Febo, Meta e Moro chiamano in causa nelle strofe del pezzo molti dei recenti accadimenti di cronaca legati agli attentati in giro per l’Europa per poi raggiungere nel ritornello l’apice del climax:
«Non mi avete fatto niente/ Non mi avete tolto niente/ Questa è la mia vita che va avanti/Oltre tutto, oltre la gente…»
Ma c’è qualcosa che non quadra.
Il brano è un perfetto mix di ritmo e musica incalzante unita ad un testo ammiccante.
L’ispirazione viene da una lettera di uno dei parenti delle vittime dell’attentato a Parigi del 13 Novembre 2015.
La stessa lettera è stata recitata da Simone Critichi nella serata dedicata ai duetti, ma c’è qualcosa che ancora non torna quando si ascolta il pezzo.
Nella lettera di cui sopra, infatti, non viene mai pronunciata una frase del tipo «Non mi avete fatto niente».
“Non avrete il mio odio“, questo il titolo della lettera, straziante e meravigliosa allo stesso tempo.
La realtà di cui parla una delle vittime degli attentati è tutt’altro che pacificata e infatti proseguendo nella lettura si legge un passaggio: «sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata».
Accettare un concetto simile è il primo passo per convivere con ciò che ci circonda, ma dov’è tutto questo dolore nel brano vincitore del Festival di Sanremo?
Dov’è l’elaborazione di quei lutti?
Confrontando la lettera ed il testo interpretato da Meta e Moro sembra di essere su due piani totalmente diversi e non comunicanti tra loro.
Ed è esattamente questo ciò che accade.
La canzone sostanzialmente restituisce la difficoltà di comunicare con qualcosa di diverso e lontano tra noi mista alla voglia di non perdere le proprie abitudini senza metterne in discussione nulla.
«Non mi avete tolto niente
Questa è la mia vita che va avanti
Oltre tutto, oltre la gente»
Alla vulnerabilità che emerge dalla lettera la canzone risponde con un’ostentata quanto non credibile forza.
Non abbiamo bisogno di essere rassicurati.
Abbiamo bisogno, semmai, di non essere raggirati.
Ed è proprio ciò che fa un tipo di canzone come quella di Meta e Moro.
Atteggiamento che porta a nascondere le colpe e le paure sotto al tappeto, a mettere le mani sugli occhi, a far finta di non sentire, di non capire.
Un brano che urla dove ci sarebbe bisogno di parlare, che va avanti per la sua strada (di chiusura) quando invece ci sarebbe bisogno di trovare punti di contatto.
Non ci avete fatto niente, vogliamo restare dove siamo, qui nei nostri salotti, con le nostre verità, dei nostri stili di vita. In qualche modo è un inno in difesa degli “slacktivist“.
Not in my backyard, è questo che colpisce il cuore di molti in una canzone del genere e lo fa in maniera forse inconscia.
A vincere non è l’operazione artistica in quanto tale, non è l’unione di tre autori che non trovano nulla di meglio che riscrivere tre strofe di un brano già bocciato in precedenti edizioni del Festival.
A vincere è la voglia di ridurre una realtà complicata a pochi semplici passaggi indolori assimilabili in tre minuti da poter passare in radio. In questa operazione di semplificazione la canzone risulta incredibilmente più attuale di quanto sembri.
È la voglia di suscitare emozioni superficiali che possano farci credere di dare un contributo alla pace nel mondo.
In tre minuti non si può certo racchiudere una lezione universitaria di geopolitica ma un’emozione sì, è quella che si deve cercare usando le parole giuste, cercando le corde migliori da far vibrare.
Dove sono le emozioni qui?
Dov’è l’empatia con le vittime?
Il punto di vista della canzone infatti non è quello di chi ha perso la vita negli attentati o dei loro parenti. Il brano è una malcelata difesa degli attivisti da poltrona, degli indignati delle chat.
Questa canzone parla della porzione più indolente della nostra società strizzandole l’occhio.
Bastano 51 centesimi per passarci una mano sulla coscienza avendo l’impressione di essere persone migliori, di essere un pubblico impegnato che fa trionfare nella manifestazione più glamour del paese una canzone di “protesta”.
È tutto così ribelle!
Ma non è così che funziona la musica, almeno quella capace di smuovere gli animi.
Uno degli inni pacifisti più importanti della storia della musica , ‘Blowin in the wind‘, è piena di domande.
Non si propaganda nessuna certezza, perché nessuna certezza si può dare a chi come noi è coinvolto in questi tempi così complicati.
È qui che Meta e Moro escono allo scoperto, qui che s’inceppa il giocattolo, anche se per non rischiare di mezzo hanno buttato evergreen come «il sorriso di un bambino» e «non esistono bombe pacifiste». Sembra la versione poetica del “Ti piace vincere facile” usato per vendere gratta e vinci.
Non è negando questi nostri fantasmi che ne usciremo.
Non è premiando canzoni del genere che staremo meglio.
Molti si crederanno assolti, ma saranno lo stesso coinvolti.
Diremo che le canzoni impegnate ci sono ancora, ma l’impegno che premiamo è solo quello a non capire quanto dolore abbiamo attorno.
Per questo motivo e per molti altri non ho provato nessuna emozione ascoltando questo brano.
È stato come assaggiare un piatto cucinato seguendo una ricetta per cuochi alle prime armi, di quelle con ingredienti basilari assemblati nel modo più innocuo possibile.
Dove è più facile far bene che sbagliare.
In questa canzone manca il rischio di un punto di vista, manca il morso allo stomaco che ti prende quando trattieni le lacrime.
È soltanto una bella foto scaricata a pagamento da un database pubblicitario e ritoccata al computer per sembrare rovinata.
A questa storia la vita non ha dato nulla, né tantomeno hanno trasmesso nulla gli attentati di cui parla.
Per questo facciamola pure trionfare, è pur sempre un buon prodotto radiofonico, ma per carità diamole il giusto peso.