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I- Days e altre storie: l’Italia pretenziosa dei Festival

Si può dire che il 2017 sia l’anno dei ‘festival’?
Piano, andiamo per gradi.

La home del mio profilo Facebook da un po’ di tempo è tappezzata di eventi ‘festival-di-qua’, ‘festival-di-là’, e nelle more di tutta questa enfasi musicale mi è stato regalato un biglietto per gli I-Days di Monza.
Inutile infierire su quanto già ampiamente sottolineato anche da altre riviste online: abbiamo capito che in questo caso specifico gli organizzatori hanno fatto il passo più lungo della gamba (per dirlo con eleganza). Tuttavia, voglio soffermarmi un attimo sulla tre giorni monzese per riflettere e ampliare il discorso.
Agli I-Days ho trovato una situazione davvero paradossale, che riassumerei in due punti.

Il palco.
È evidente che se sulla selezione artistica non si è badato a spese, nemmeno su tutto ciò che supporta il palco ci si è risparmiati.
Dal punto di vista scenografico nessun dettaglio che valga la pena ricordare, ma la struttura grande e performante è stata degna degli ospiti a cartellone.

L’organizzazione.
La logistica inadeguata alle esigenze, la gestione dei flussi – come anche la comunicazione al pubblico – davvero inesistenti.
I controlli agli ingressi altrettanto preoccupanti.
Secondo una direttiva interna diffusa i giorni precedenti l’inizio del festival, non avremmo dovuto introdurre nemmeno una penna…eppure, nell’area concerti c’era un po’ di tutto: dalle bombolette di Autan ai bastoni da selfie.
Di come frotte di pubblico siano sfuggite al controllo e all’apertura degli zaini non vale neanche la pena parlare, poiché dire «sì sì, vai in fondo a farti controllare» non lo includo tra i controlli, ma tra i consigli della nonna a cappuccetto rosso.
Il personale  era mal distribuito e mal preparato a tutti i livelli, dall’accoglienza alla ristorazione: lenti, disinformati, a tratti anche maleducati e con strumenti insufficienti a fare quello per cui sono stati assunti.
La qualità e la scelta dei servizi (stand, cibo, bevande) sotto il minimo della sagra paesana.
Nemmeno lontanamente contemplata la gestione dei rifiuti, figuriamoci l’idea di una più ecologica raccolta differenziata.
La spazzatura  proliferava nell’area in modo incontrollato, forse gli organizzatori speravano nell’autocombustione?
E l’accessibilità, la fruibilità da parte dei disabili?
Come avrebbe potuto un disabile in carrozzina richiedere assistenza o anche semplicemente reperire una bottiglia d’acqua, se io per farlo ho dovuto spintonare tra la folla per 50 minuti?

Il punto cruciale è che tutte queste osservazioni, fatte su un’esperienza che poi è rappresentativa di molte altre, portano ad una riflessione più profonda.
Dove vogliamo arrivare?
Cosa è giusto aspettarsi e pretendere da un festival?
Soprattutto, cosa ci appaga in questo tipo di esperienza?

È naturale che gli organizzatori degli I-Days non siano degli sprovveduti: sono imprenditori che ogni anno fruttano cifre a molti zeri, professionisti che assorbono società e scritturano artisti come se stessero comprando caramelle.
Lo fanno bene e l’hanno dimostrato: la formazione cast, la vendita, il core business, l’hanno portato a casa.
Festival

Allora cosa è andato storto?
L’obiettivo e il mezzo.

Parlando di obiettivi forse gli organizzatori ne avevano uno, il pubblico un altro: nessuno in questo caso si è posto l’obiettivo di adeguare l’offerta italiana agli standard europei, anche se ormai è il pubblico stesso che lo richiede.

Pensando al mezzo, anche qui vale la regola aurea per cui “ognuno deve fare il suo”. L’intrattenimento è un lavoro e come tale richiede professionisti, figure specializzate nel saper individuare e gestire efficacemente i servizi paralleli al palco.
Sapete in concreto che vuol dire ‘festival’?
Se doveste realizzare un evento, sapreste quali professionalità servono e dove trovarle?
Chi controlla e cosa deve controllare?
Quanto far pagare al pubblico?
Io vivo in questo ambiente, eppure non saprei rispondere a tutto questo.

Festival

Mi chiedo: perché mai in alcune manifestazioni si trovano i metal detector full screen se poi basta spostarsi di qualche km per non trovare nemmeno mezzo controllo analogo, ad eventi simili?
Perché mai un’amministrazione dovrebbe sponsorizzare un evento piuttosto che un altro?
E perché in alcuni contesti può andare bene il supporto dei volontari mentre in altri  pretendo la professionalità?
È una questione di soldi, di numeri?
Di flussi, di budget?
Della denominazione sociale di chi organizza?

Anche qui, è una questione di obiettivi e di mezzi.
Perché magari va anche bene tutto, ma solo se sai cosa stai vendendo o cosa stai comprando.

La verità è che in Italia non abbiamo una linea su cui basarci: stiamo improvvisando e lo facciamo con le migliori intenzioni, ma non basta.
Le amministrazioni, in primis, non sono preparate: abbandonate a sé stesse, portano avanti i progetti più o meno bene in base alla sensibilità del singolo.
La cultura dell’intrattenimento in Italia non si è sviluppata in modo strutturato e i festival, i grandi concerti o gli eventi così come concepiti all’estero, non fanno parte della nostra quotidianità. Siamo all’età della pietra dal punto di vista tecnologico, dell’e-business, della customer care – e tutte queste parolone che se nessuno ancora pronuncia in italiano, un motivo ci sarà.

Di norma in questo Paese ne abbiamo in abbondanza, ma forse è necessario un supporto ancor più maggiore, con linee guida specifiche e standard di riferimento per le professioni, così come già avviene per altri settori.
È ora che i contributi pubblici, i contratti di lavoro, i protocolli sanitari, quelli logistici e tutto il resto siano davvero commisurati all’esigenza.

Si dice che «quando il sole della cultura è basso anche i nani hanno l’aspetto dei giganti».
Possiamo stare qua a discutere sull’ombra del nano finché la polemica non diventerà noia o possiamo confrontarci con i più bravi e interrogarci su come preparare un terreno migliore per i prossimi eventi.

Chiudo la mia esperienza agli I-Days con una domanda: dato che alcune figure professionali ormai sono sdoganate, sarei curiosa di sapere dove è finito il Social Media Manager.
Come e soprattutto, quando intende intervenire sul piano della comunicazione.
Sarà pure lui ancora in coda per un panino?

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