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Daniele Silvestri

Daniele Silvestri, una disamina sulla pop music in Italia

Daniele Silvestri è pop.
Daniele Silvestri ha partecipato a cinque Festival di Sanremo.
Salirò‘ l’hanno inserita come colonna sonora della settima edizione di Zelig Circus (2003).
Questo è troppo, veramente troppo.
Si è venduto.
Vado ad ascoltare Calcutta e I Ministri.


Ora vorrei raccontare un storia.

«Daniele Silvestri presenterà il suo nuovo disco alla Feltrinelli di Bologna e per l’occasione suonerà qualche canzone dell’album. Io vado di sicuro, tu ci sei?»
«Uhm, Daniele Silvestri…»
«Ho sentito qualche suo nuovo pezzo, veramente tanta tanta roba! Fammi sapere se ci sei»
«Lo conosco poco, però mi sta simpatico. Dai, allora mi sa che vengo anch’io»

Più o meno in questo modo, più o meno in questa forma: così è stata la conversazione tra me ed un mio amico (io sono quello di «Uhm, Daniele Silvestri…»).

Daniele SilvestriConosco poco della (ormai) consistente discografia di Daniele Silvestri.
Lui (Silvestri), invece, lo conosco da una vita.
Si parla di quasi quattordici anni fa: indovinate cosa trasmettevano le radio in quel lontano 2002?
Indizio: è il pezzo che lo ha consacrato al successo.
Si tratta di ‘Salirò‘, che io ricordo per essere stata prima per non so quante settimane nelle classifiche di Top Of The Pops (altro programma storico indissolubilmente legato alla mia infanzia).
Ricordo che mio padre me la cantava sempre, ripetendo “salirò” almeno il triplo delle volte di Silvestri (sì, veramente tante volte): lo faceva per farmi ridere e io ridevo perché i bambini ridono per queste cose.

Ma a me piaceva ancora di più ‘Kunta Kinte‘, altro singolo di successo uscito due anni dopo: trovavo troppo divertenti quei giochi di parole (“conto quanto Kunta Kinte e in quanto kunta Kinte canto”), sembrava una buffa filastrocca. Un pezzo che tuttora reputo geniale.
Il pezzo “pop” per eccellenza, nella sua accezione di popolare, cioè per tutti, grandi e piccoli.
Ecco, Silvestri ha sempre avuto questa dote: quella di riuscire, a suo modo e con le sue regole, a coinvolgere una platea di ascoltatori non tanto numerosa (non stiamo parlando di Vasco Rossi che riempie gli stadi ad ogni suo tour), quanto -soprattutto – eterogenea.
Un po’ come Caparezza.
Trovo incredibile e assolutamente cool che Capa piaccia soprattutto agli ascoltatori di musica rock (concetto che lo stesso rapper ha ricordato nelle sue interviste).

Ma torniamo al presente.
Il mio amico è un grande appassionato di musica italiana e, in special modo, di tutta quella compagine di artisti che negli anni hanno saputo ritagliarsi una consistente nicchia di successo (e qui mi vengono in mente anche Niccolò Fabi e Max Gazzè, praticamente serviti su un piatto d’argento: non a caso, sono freschi di un album uscito l’anno scorso in cui anche Daniele Silvestri ha partecipato).
Quando mi ha chiesto se sarei andato a vedere Silvestri alla Feltrinelli di Bologna lo scorso 4 marzo ho risposto di sì.
Ma poi-devo confessarlo- mi è scattata subito in testa una domanda: «Daniele Silvestri chi?» (semi cit.).

Cerco di spiegarmi: c’è stato un punto, nella mia vita, in cui la musica si è trasformata da piacevole passatempo a vera e propria passione.
Ho scoperto le potenzialità che aveva YouTube nella ricerca di artisti che volevo conoscere e approfondire.
Ho sempre avuto come mission quella di trovare la band o il cantante migliori di tutti.
Il cantante o la band che segnassero la mia vita.
Ovviamente è poco plausibile (a parte qualche caso sporadico) che ciò accada.
Per esempio, mi piacciono moltissimo i Pink Floyd, ma anche loro – se ascoltati a ripetizione – finiscono per stancarmi e farmi convogliare le forze nella “caccia” a qualcun altro.
In questa fase di spasmodica e ossessiva ricerca, ho finito con lo snobbare completamente la musica italiana, presente e passata.
I cantautori degli anni ’70 no: sono invecchiati male e non mi piacciono.
La musica di oggi no: solo dei gran talent scadenti e Festival di Sanremo trash.

La cosa incredibile era che artisti come Gazzè e Silvestri (che possono piacere o meno, per carità), non rientravano in nessuna categoria della mia ipotetica lista di proscrizione: erano sì cantautori contemporanei, ma assolutamente slegati dalle moderne realtà del music business.
Eppure, anche loro sono stati incolpevolmente snobbati e rinchiusi “sine causa” nel Dimenticatoio.
Posso dunque affermare da un lato di conoscere Daniele Silvestri da quattordici anni, dall’altro di non conoscerlo per niente.

Oggi, a mente fredda, mi chiedo che cosa mi “spaventasse” di loro: in fondo, non mi avevano fatto nulla di male. Anzi: avevo sempre avuto nei loro riguardi un sentimento paragonabile a quello che noi chiamiamo “rispetto”. Eppure, nonostante ciò, l’interesse ad approfondirli non c’era mai stato.
La risposta che mi do, alquanto banale, stupida e a tratti non-sense, è: erano troppo pop per me.
Insomma, per me pop è sempre stata una brutta parola: significava commerciale, un aggettivo che in musica utilizziamo per dire che un artista si presta a seguire docilmente le logiche di mercato, sfornando solo pezzi radiofonici (tutti uguali tra loro) che parlano “di quanto è bella/o lei/lui” e “di quanto sono innamorata/o di te”.
E via discorrendo.
Ed era qui che stava il mio errore: Daniele Silvestri, pur catalogandosi nell’ambito del genere pop, non strizzava l’occhio al mercato.
Non faceva canzoni tutte uguali.
Non parlava solo d’amore.
Per dirla tutta, non era prettamente commerciale, pur avendo scritto classiconi da feste in spiaggia (come ‘La Paranza‘).

Un errore ancora più grave è stato giudicare (in modo negativo) Silvestri per il solo fatto che avesse partecipato al Festival di Sanremo: ecco un altro luogo comune difficile da cancellare.
Molti artisti validi, anche dell’ambiente meno mainstream (penso ai Marlene Kuntz e ai Marta sui Tubi), si sono comunque esibiti all’Ariston, portando la loro poetica e la loro musica.

Nonostante io sia cambiato molto rispetto al passato, la mia riflessione rimane per molti tratti attuale, soprattutto per quel che riguarda il pensiero critico di molti giornalisti musicali (e non solo).
Quello che avverto è che in molti casi si perda la spontaneità del giudizio personale a favore di una vera e propria campagna promozionale accondiscendente verso un artista che “fa tendenza”.
Penso a Pitchfork, nota webzine statunitense che più volte è stata criticata di pompare delle band o dei cantanti in maniera esagerata.
Per esempio, in questi ultimi anni, Kanye West, Kendrick Lamar e altri rapper stanno vivendo in una fase favorevolissima, generata da un successo planetario di pubblico e da un consenso praticamente unanime di critica. Può essere veramente possibile che tutti i redattori che devono scrivere una recensione su Kendrick Lamar si perdano in lodi sperticate e urlino al capolavoro?
Non credo, però l’artista fa tendenza e quindi molto spesso questo fattore influisce sul pensiero critico.

Cosa voglio dire e dove voglio arrivare?
Sono andato alla Feltrinelli di Bologna e ho visto un mini-concerto in acustico di Daniele Silvestri che ha eseguito tre pezzi del nuovo disco: ‘Acrobati’ (che è anche il titolo dell’album), ‘Monolocale’ e ‘La mia casa’.
Mi sono piaciuti e anche tanto.
Ho assistito allo spettacolo senza preconcetti e con la mente completamente libera.
Ora mi dico che probabilmente acquisterò l’album e (ri)scoprirò, dopo quattordici anni in cui potevo farlo, questo artista.
Come se fosse la prima volta.
Perché, purtroppo, scrivere di musica, avere a che fare con centinaia di band grandi e piccole, porta ad essere meno obiettivi rispetto a chi semplicemente la musica l’ascolta in modo disinteressato e senza troppe pretese da intellettuale. Meno Scaruffi e meno Simon Reynods, più spontaneità: è un appello che rivolgo prima di tutti a me stesso.

Daniele Silvestri

La piccola esibizione di Daniele Silvestri mi ha fatto riflettere anche su molto altro (perché sì, partire per la tangente, poi, è più facile di quanto sembri).
Tra i molti pensieri che mi hanno incupito ce n’è stato uno particolarmente ossessivo: a dispetto dei pronostici (per citare uno dei suoi ultimi pezzi), Daniele Silvestri è ancora più che mai vivo artisticamente e continua a riscuotere ottimi consensi di pubblico (questo album sembra esserne la conferma).
Molto semplicemente mi (vi) chiedo: perché?
La risposta è una sola: per la sua personalità, che di fondo contribuisce a limare e definire la sua natura artistica. Pezzi talvolta rappati, utilizzo di strumenti alquanto bizzarri per il genere (come il fagotto e la diamonica) e l’aggiunta di vorticosi giochi di parole sono l’essenza di questa creatività eruttiva.
Certo, Silvestri ha un trascorso e un’esperienza tale da potersi permettere tutto questo.
Ma – ricordiamocelo – anche lui è stato emergente.
Anche la sua storia ha avuto un punto di inizio.
Il successo è prima di tutto fortuna, voi potreste dire, ma io non credo.
Specialmente, non dura così a lungo come sta accadendo al cantante romano (e qui è inevitabile l’allusione a certi droidi pop fuoriusciti da X-Factor e The Voice: questi fanno un album e poi fine, si spengono, non hanno più nulla da dire).
Stessa cosa vale per il mondo della musica emergente, reo di non osare abbastanza e sperimentare.
In poche parole, di stupire.
Sono molto attento a tutti gli artisti emergenti, ma a parte qualche caso mi ritrovo quasi sempre a esplorare band che provengono da Londra o New York.
In Italia manca sempre un certo mordente e abbonda un timido manierismo che porta gli artisti a scimmiottare il passato senza apportare nulla di nuovo.
O, se non di nuovo, di personale.

Visto che questo articolo nasce per criticare tutto e tutti, un’ultima frecciata è rivolta alla cosiddetta “domanda” del mercato. Cioè a noi ascoltatori.
Sicuramente qualcuno potrò tacciarmi di qualunquismo, ma poco importa perché molte delle colpe per cui in Italia non si diffonde una cultura musicale basata sulla varietà di generi e stili è in gran parte nostra.
Abbiamo uno strumento chiamato Internet – dalle potenzialità infinite – che ci permetterebbe di andare oltre i format televisivi e poter scoprire tante piccole realtà meritevoli di emergere.
E invece… Niente.
Si preferisce il conforto di una Pausini, il ventordicesimo album di Vasco Rossi e le “nuove” (ma solo in senso anagrafico) proposte dei talent.
Ci sono molti altri canali di approfondimento: si pensi allo streaming, criticabile quanto si voglia, eppure molto utile.
Da Spotify, fino a Soundcloud e Banndcamp (questi ultimi soprattutto per le band emergenti), le occasioni per conoscere ed esplorare ci vengono educatamente fornite: spetta a noi sfruttarle.

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