Complimenti, sei maggioranza
L’ossessione dei numeri nel mainstream italiano degli anni venti
Complimenti spettatore, sei maggioranza! Il risultato del sondaggio ti è stato favorevole […] Per ventiquattr’ore avrai corrente a volontà e soprattutto avrai accesso a diciannove canali governativi.
In “Elianto”, nel 1992, Stefano Benni, immaginava un futuro distopico in cui ogni mattina, la popolazione di una fantomatica repubblica, è sottoposta a un sondaggio su un tema qualsiasi. Ogni famiglia possiede un telecomando per inviare la propria risposta un sistema. Se, dopo i calcoli in tempo reale dei risultati del sondaggio, la risposta della famiglia risulta essere in linea con la maggioranza, allora si avrà per ventiquattr’ore. Diversamente, alla stessa famiglia verrà tolto l’approvvigionamento energetico per il giorno a seguire.
C’era una volta un festival musicale italiano, di quelli che eri a Torino ma sembrava di essere al Victoria Park di Londra durante il Field Day. Un festival che rendeva più dolce il doloroso rientro nelle città e l’avanzare dell’autunno. Un festival che, per qualche giorno, riusciva nell’impresa di colorare anche la grigia periferia della città sabauda. Un festival attento alle proposte più interessanti della scena alternative rock, che nella sua quasi attività decennale aveva ospitato sul suo palco nomi come Interpol, Jesus And Mary Chain, Goat, PJ Harvey, Richard Ashcroft, Mac De Marco, Mogway, Editors, Echo And the Bunnymen, The War On Drugs, DIIV, Yard Act, Black Country New Road, Bob Mould, Band of Horses, Jarvis Cocker, Ride, Spiritualized, Balthazar, Johnny Marr, Arab Strap, Tash Sultana, Primal Scream, Wilco, Sleaford Mods, Christine and The Queens. Un festival che accanto ai concerti offriva dibattiti, tavole rotonde, notti dedicate all’elettronica. Un festival che si era costruito una sua credibilità e che anno dopo anno otteneva sempre grande risposta di pubblico che affluiva da diverse regioni d’Italia e da diversi paesi d’Europa. Un festival che, pur non vivendo nell’ossessione dei grandi numeri (e dei grandissimi spazi), infilava un sold out dietro l’altro, registrando, per ogni edizione, affluenze nell’ordine delle diverse decine di migliaia di persone.
Questo festival era il fiore all’occhiello della città di Torino. Questo festival era il Todays. Questo festival, così come era stato pensato, realizzato e amato, non si farà più. Ha deciso così la nuova giunta comunale di Torino, che ha per mesi preso tempo e fatto orecchie da mercante davanti alle richieste di incontro degli organizzatori per iniziare a gettare le fondamenta per l’edizione 2024. Poi ha così risposto per bocca dell’assessora alla cultura Rosanna Purchia.
“Questa amministrazione non ha mai pensato di chiudere il Todays ma di renderlo una manifestazione di maggiore attrattiva e interesse. Che accolga giovani talenti ma senza rinunciare ad artisti già affermati sulla scena musicale nazionale e internazionale, prevedendo eventi gratuiti insieme a momenti musicali a pagamento, ma con un costo in diminuzione per renderlo alla portata di tutti. Un festival che partendo dall’esperienza di Todays, sia maggiormente accessibile sia per artisti che per gli spettatori. Nessuna intenzione di cancellare il Todays, la sua storia, la sua professionalità. Al contrario c’è voglia di farlo ulteriormente crescere. La città proprietaria dell’evento ha intenzione di investire in una proposta musicale rafforzata. Non avendo la competenza […] questa amministrazione ha chiesto ha chi finora ha gestito l’evento […] la disponibilità a collaborare anche con altri operatori musicali. Per rispondere a un principio di trasparenza […] la città ha individuato nel bando ad evidenza pubblica la formula che ponesse tutti i candidati in condizioni di pari opportunità “.
Qui trovate un approfondimento.
Insomma, arrivederci e grazie di tutto. Finisce, almeno per ora, la storia del Todays per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi. Escludendo coraggiose realtà locali, a tenere alta la bandiera dell’alternative in Italia è rimasto forse il solo Ypsigrock a Castelbuono, gioiello incastonato nelle Madonie. Questo triste epilogo mi ha stimolato alcune riflessioni su dove stia andando, o dove sia già andata da un pezzo la musica in Italia.
Ho esitato un bel po’ prima di scrivere queste righe. Reduce da Sanremo, in questi giorni ho letto centinaia di articoli, post e resoconti sul festival dei fiori. Come durante i campionati del mondo di calcio siamo tutti allenatori, quando è tempo della settimana della kermesse targata RaiUno diventiamo sessanta milioni di esperti di musica, ciascuno con le sue specializzazioni. Giornalisti, musicisti, pompieri, ostetriche, farmacisti, avvocatesse, corrieri, idraulici, segretarie d’azienda, studenti, agenti immobiliari, analiste di laboratorio. Chi disserta di intonazioni o si lancia in analisi delle progressioni armoniche e degli arrangiamenti alla stregua di un docente di Santa Cecilia, chi, con foga da commando ultrà, esalta o insulta la sala stampa o televoto in base al trattamento riservato ai propri beniamini. Tutto ciò è a tratti strepitoso, ma mi sono chiesto per giorni se avessi un valore aggiunto da apportare al dibattito. Dopo una settimana di dubbio mi sono ricordato della cancellazione del Todays, e allora valore aggiunto o meno, non mi sono trattenuto. Che siano considerazioni o semplicemente sfoghi, lo lascio decidere ai lettori, semmai ce ne dovessero essere.
Parlando di Italia, purtroppo, bisogna ripartire dal Festival. È stato il Sanremo qualitativamente più brutto, ma non è questo il focus. O meglio, non solo. È stato il Sanremo di ogni record di ascolto frantumato. Il Sanremo del 74% di share. Il Sanremo del “siete così tanti a televotare che il sistema è saltato”, tanto se il voto della maggioranza si disallinea con la minoranza che conta ci sarà sempre una sala stampa a vestire i panni del deus ex machina. Il Sanremo del “siate maggioranza” di Stefano Benni. Quella maggioranza che sta diventando dittatura e risucchia il concetto di democrazia all’interno di terminazioni enteriche (vi evito la googlata, sto parlando del buco del culo). Terminazioni dalle quali viene espulsa l’aberrazione di considerare il numero di like e interazioni sotto un post o una notizia come unico criterio per stabilirne l’attendibilità. O il numero di streaming come unico criterio di qualità e come unico determinante del diritto all’esistenza di una proposta artistica. O abusare della parola “rock”, spinta a forza nel titolo di rassegne al confronto dei quali il Festival di Musica Sacra di Bolzano è Glastonbury.
Parlare di Sanremo per me vuol dire parlare del grande inganno in cui si cade tutti da qualche tempo. Facciamo chiarezza: Sanremo non è una manifestazione canora e musicale. Sanremo è la più grossa produzione Rai dell’anno. In sede di formulazione dei palinsesti annuali, è il primo slot che viene bloccato, insieme ai grandi eventi sportivi quali Olimpiadi e Mondiali/Europei di calcio. Sanremo ha come obiettivo manifesto la raccolta di pubblico e come mission sotterranea, ma non troppo, quella di denaro proveniente dagli investimenti pubblicitari importantissimi per il bilancio della Tv di Stato. Teniamo sempre a mente questo quando parliamo del festival. Il pubblico target di riferimento è l’Italia intera ed è composto per gran parte da persone che: hanno età compresa tra i 45 e gli 85 anni e sono abituali fruitori di tv; non acquistano dischi o cd, a meno che non gli cada l’occhio sul greatest hits di Giorgia nell’autogrill Roncobilaccio Est; non frequentano concerti; ascoltano musica in modo casuale, distratto, spesso nel traffico, tra un messaggio whatsapp e un imprecazione a quello che non rispetta lo stop; non ricercano attivamente musica, né sono interessati a notizie del settore, a meno che non si tratti di gossip.
Certamente Sanremo non parla al pubblico dell’alternative che andava al Todays. Tuttavia, alcuni di noi cadono nella sua rete e, pur parlandone male, finiscono con il considerarne anche la valenza musicale. Perché Sanremo è ancora percepito come il festival della canzone, anche se ormai di canzoni, almeno nella forma tradizionale, se ne sentono ben poche.In realtà, ciò che accade nella cittadina ligure non è la causa bensì lo specchio di una situazione musicale italiana che sembra aver imboccato un tunnel dal quale non vuole uscire: quello dei grandi numeri
L’ossessione per la quantità fa perdere di senso anche alla realtà, che diventa solo apparentemente oggettiva. Si celebrano i 179 dischi di platino di Sfera Ebbasta, ma bisogna ricordare che un tempo per ricevere un disco del metallo più nobile servivano un milione di copie fisiche vendute. Oggi ne bastano cinquantamila.
Va fatta una premessa. L’avvento della musica digitale è stato il De Profundis delle vendite dei dischi. Nel 2015 la Federazione Industria Musicale Italiana (FIMI) ha introdotto il concetto di unità equivalente per avere una stima teorica di queste, prendendo in considerazione i download digitali e gli stream delle singole tracce in aggiunta ai tradizionali acquisti di album interi in formato fisico. Dal 2018 vengono contati solo gli streaming degli abbonamenti premium alle piattaforme. Una copia fisica di album venduta corrisponde a 130 download digitali o 1300 streaming.
Ritorniamo a Sfera Ebbasta: Rockstar, il suo album di maggior successo commerciale ha venduto circa 350.000 copie, pari a sette dischi di platino, ma di queste solo 105.000 sono dischi fisici. Numeri che appartengono al regno dell’infinitamente piccolo se paragonati alle milioni di copie fisiche vendute da Baglioni, Zucchero, Battiato, Vasco Rossi. Se consideriamo che l’acquisto di un disco ha un costo incomparabilmente maggiore in termini di tempo e investimento economico rispetto a un tap sul display di uno smartphone, è evidente quanto la fruizione della musica sia oggi mordi e fuggi. Oggi il grosso dei dischi di platino del rapper di Sesto San Giovanni proviene da collaborazioni e singoli e da rapidi e stereotipati movimenti riflessi di pollice . Stessa cosa può dirsi per la quasi totalità degli artisti mainstream.
Che poi considerare lo streaming come indice della qualità e dell’effettivo gradimento della musica è fuorviante. Esattamente come i dati Auditel, che indicano il canale sul quale è sintonizzato un televisore, ma non dicono nulla sulle persone che sono davanti a esso. La tv può essere accesa senza che si presti la minima attenzione al programma trasmesso. Il discorso vale ancor più per i followers; si può seguire una band o qualche artista indipendentemente dall’esserne fan o dall’ascoltarne i pezzi in streaming. Non sono più indicativi neanche le presenze ai concerti dal vivo e per questo rimando a un recente e celebre articolo di Michele Monina.
Ma i criteri sopra esposti sono quelli che da qualche anno, salvo rare eccezioni, sono utilizzati per selezionare gli artisti da inserire nel cast del Festival di Sanremo. L’obiettivo è quello di frantumare ogni record di ascolto. Se da Sempre il Festival di Sanremo ha uno zoccolo duro di spettatori, si tratta di attirare chi lo ha sempre considerato uno spettacolo per vecchi: i nati dopo il 2000. Teenagers, o poco più, che fanno parte della fanbase di artisti nati su social o talent. Il loro ascolto consapevole di musica è in prevalenza circoscritto alle release dei loro idoli. Non frequentano altri concerti, di rado ascoltano musica di diverso tipo o si attivano per scoprire novità alternative o indipendenti.
E così dentro gli eroi di Tiktok e autostrada aperta ai frutti sbocciati sugli alberi dei talent. Record di canzoni in gara e diretta che tira oltre le due di notte, mossa astuta per alzare lo share. Sempre più rare le eccezioni, rappresentate da qualche cantautore ricercato e più “difficile” della media. Penso al Giovanni Truppi di due anni fa, abbastanza fuori contesto, uscitone bene ma che certamente nulla ha aggiunto alla sua carriera. Oppure a qualche rassicurante vecchia gloria del passato, come i Cugini di Campagna lo scorso anno, che hanno invece sorpreso tutti presentandosi con un pezzo nemmeno male.Il risultato però è impietoso. La principale manifestazione canora italiana è diventata un hard discount di canzonette, un McDonald di suoni un tanto al chilo. Il caso vuole che da giorni abbia in testa la stessa metafora utilizzata da Ghemon in un post diventato subito virale. Meglio di me ha raccontato quali possano essere le conseguenze sulla salute mentale degli artisti finiti dentro il tritacarne dei numeri a tutti i costi e non mi dilungherò sulla questione.
Attenzione però: sul palco dell’Ariston va in scena uno spettacolo, in alcuni momenti anche di pregiata fattura, che svolge al meglio il proprio lavoro. Ma le canzoni sono solo un pretesto di facciata. In pochi hanno fatto caso alla frase di Lazza subito dopo aver eseguito ‘100 messaggi’ in chiusura di Festival. “È una canzone che per me vuol dire molto. Non la brucio in una competizione”. Sacrificarla in una gara decisa dai voti di chi non sa nemmeno cosa sta ascoltando, o da giornalisti che borbottano e agiscono di conseguenza se il televoto non premia il loro cocco.
I pezzi di Sanremo stanno alla musica come il Big Mac sta alla gastronomia o i libri di Moccia alla letteratura. Non a caso hanno portato in libreria chi non vi era mai entrato e chi non vi metteva piede da qualche decennio. Proprio come fa Sanremo con chi durante il resto dell’anno ignora del tutto il mondo delle sette note. Se ci fosse un festival letterario organizzato da Amadeus troveremmo in gara “Sei Bella Come Sei” di Clio Zammatteo e non certo “Stella Maris” di Cormack Mc Carthy. Numeri, ancora numeri, sempre e solo numeri.
Verrebbe da pensare che questa ossessione abbia fatto sparire la figura classica del talent scout. Quello che una volta passava le notti in locali grandi poco più che scantinati ad ascoltare band e cantautori emergenti, oggi lo immagino a scandagliare le piattaforme social interessato al counter delle visualizzazioni e dei followers. Come suoni o come scrivi viene dopo, o a volte non viene per niente. Tanto se non ce la fai a cantare live ci pensano le backing vocals che danno corpo a una voce che non c’è. Ti muovi bene sul palco? Sei personaggio? Perfetto, fermo lì e non fare altro. Ai pezzi possono pensare gli autori, spesso sempre gli stessi che girano in tondo passando da un artista all’altro. Così come uguali sono i pezzi. Al macero la forma della canzone tradizionale, rinnegata la caratteristica forte della musica italiana. Sempre più sono brani insipienti, con sonorità che scimmiottano sempre più il pop d’oltreoceano. Perché sforzarsi a tirar fuori qualcosa di buono se i numeri si fanno lo stesso? Si pensano già i passaggi nel talent e l’algoritmo pompato quotidianamente dai social media manager. Una dichiarazione polemica, una notizia che ti rende virale sui social, il giusto video caricato su Tiktok conta più di un bell’arrangiamento o di una melodia cantata con personalità.
È tutta così la musica in Italia? Certo che no. Esiste un sommerso di qualità che, per scelta, per miopia, o per dolo, si muove nei circuiti alternativi. Esiste un alternative italiano, che resta confinato nei circuiti indipendenti e che può riservare notevoli sorprese. Esiste chi guarda all’Europa, dove raccoglie anche buoni consensi e a volte anche contratti con importanti etichette d’oltremanica. Esiste chi ha lavorato e lottato per costruirsi un’identità e un percorso artistico di alto livello e rimanendo fedele a sé stesso. E che di questa credibilità fa la sua forza. Esistono band che esplorano le contaminazioni tra rock, blues, funky, afro, rap, jazz, elettronica che percorrono in lungo e in largo i club della penisola, da Bressanone a Marzamemi. Culo sul furgone, telepass, 400 chilometri, arrivi, scarica gli strumenti, monta, soundcheck, live, scarica, bicchiere della staffa, hotel e domani si riparte. Così per cento e più giornate ogni anno. Alcuni di loro vivono in bilico tentando l’impresa più difficile, o forse la più rischiosa, la tentano le realtà di confine tra mainstream e indipendente.
La logica è sempre quella del supermercato. L’ascolto è un meccanismo pavloviano, un riflesso incondizionato stimolo-risposta. Dal display dello smartphone, al like, alla condivisione. Troppa qualità, stimola consapevolezza. Un pezzo ricercato stimola il pensiero. E se si pensa troppo, va a finire che quel “like” non si clicca. Invece lo fai, senza starci troppo a riflettere, così come quando, davanti a uno scaffale del discount, arraffi prodotti che non ti servono.
Devi dimenticarti di quello che hai ascoltato, non devi avere memoria affettiva del pezzo. In pochi mesi la tua testa deve essere vuota perché possa accogliere il tormentone successivo che non è altro che lo stesso pezzo infiocchettato dentro un’altra confezione E la confezione, coloratissima, smart, accattivante, è l’artista, o quello che ne resta. Vittima di questo sistema al pari del pubblico.
“Hai venduto il talento per sentirti importante. La gente è cattiva si innamora per niente. Si innamora di un altro. […] È come dar da mangiare ai cani e dai cani farsi mangiare”.
Cos’ canta Paolo Benvegnù in ‘Tecnica e Simbolica’. Parole scolpite che sembrano pensate apposta. Il talento è sacrificato sull’altare del numero e svuotato di personalità. L’artista può avere grande voce, mangiarsi il palco e telecamere, ma quello che canta è passato al setaccio della sua anima senza che nulla resti dentro di lui. Intensità, vissuto, storia personale erano un tempo le fondamenta sulle quali si reggevano l’impalcatura degli album, gallerie di affreschi, veri e propri romanzi che raccontavano storie che riempivano vite di intere generazioni. Che piacessero o no, i cantautori di un tempo cantavano quello che erano, e arrivavano. Oggi sempre più spesso cantano quello che il loro target di pubblico vorrebbe che fossero. Polli di batteria, costretti a sfornare un singolo dietro l’altro, per mantenere caldo l’hype, tenere sulla corda l’algoritmo e caldi i fan. E costantemente sotto scacco perché c’è la fila per prendere il tuo posto. Non sei certo tu a fare la differenza e la mannaia delle sagre di paese incombe sempre sulla tua testa.
Se i produttori e i discografici sono i padroni del McDonald, gli artisti sono gli inservienti, le canzoni sono i panini. Venduti a milioni, che rispettino la regola dell’avere tutti lo stesso sapore e addizionati da grandi quantità di zuccheri per creare dipendenza. Ecco cos’è il mainstream italiano: milioni di individui che hanno perso il senso del gusto e preferiscono il panino del fast food a un risotto di mare. Animali nati per essere liberi che finiscono prigionieri in un appartamento a preferire i croccantini prodotti su scala industriale agli avanzi di una spigola all’acqua pazza. Persone che hanno scelto di seguire il celebre consiglio che Marcello Marchesi diede qualche tempo fa: “Mangiate merda, miliardi di mosche non possono avere torto”.
Perché l’uniformità e l’appiattimento delle canzoni fanno crollare la capacità delle nostre orecchie di percepire le diverse sfumature di suono, riconoscerne la peculiarità, l’abbinamento o il contrasto tra i suoni, le soluzioni armoniche o l’andamento ritmico. A essere compromessa è la nostra esperienza d’ascolto, anestetizzata, impoverita, calpestata. Si svuotano i cantanti dell’anima, si nutrono i nostri cervelli con del diserbante nel nome della devozione alla quantità. La stessa devozione che porta forse un’assessora alla cultura a chiudere uno dei festival più interessanti e vivaci d’Italia, in nome di un “rafforzamento della proposta”. L’ossessione per la quantità che sta uccidendo la musica e che, per quanto ci siamo detti, alla resa dei conti vi impoverisce. Che di voi, alla fine, mi importa relativamente. Ma se mi tolgono il Todays mi impoverisco anche io.
E allora mi incazzo.