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Sinéad O’Connor, l’Irlanda piange uno dei suoi simboli

È stata la televisione di stato RTÉ a dare la notizia della scomparsa della «amata Sinead».
Figlia prediletta dell’isola verde, artista dalla sensibilità tanto immensa quanto fragile, come fragile e altalenante è stata tutta la sua vita.

Sinéad O’Connor
 esordisce a metà anni Ottanta con l’album “The Lion and The Cobra” che vede il debutto in gaelico di una giovanissima Enya.
L’enorme successo arriva nel 1990, quando con l’album “I Do Not Want What I Haven’t Got” il mondo scopre la sua voce angelica e profonda.
Capovolge e reinterpreta un brano scritto da Prince, ‘Nothing compares to you‘, per uno dei suoi progetti paralleli: è un trionfo che travalica l’aspetto musicale.
Una nazione intera gode del suo successo e si scopre nuovamente una terra magnifica, l’Irlanda, che aveva passato sì gli ultimi decenni sui giornali, ma per gli attentati dell’IRA.
Da quel momento in poi, con la notorietà, Sinéad O’Connor diventa un simbolo e ogni suo gesto viene vivisezionato.
Nel 1992 al Saturday Night Live strappa la foto di Papa Giovanni Paolo II per denunciare la pedofilia nel mondo della Chiesa Cattolica: un gesto forte e controverso che nella cattolicissima Irlanda risuonò come un terremoto.
Altri musicisti si sono distinti per atti simili, basti ricordare su tutti la maglietta di Axl Rose con l’icona di Gesù e la scritta “Kill your enemy”.
Eppure nel caso di Sinéad la cassa di risonanza era diversa.
La sua fama è sempre andata oltre la sua figura: era la bandiera di un popolo.
Minuta nel fisico quanto potente nella voce, non solo quando cantava ma anche quando parlava.

Sinéad O’Connor negli anni Novanta

Giungono anni di depressione schizoide, intramezzati con escursioni artistiche come “How About I Be Me (And You Be You)?” del 2012, davvero una perla.
I demoni che aveva dentro, probabilmente frutto anche di traumi infantili, hanno iniziato a dominarla; negli anni parlò esplicitamente della malattia mentale come di uno stigma.
Ha cercato aiuto in sé stessa, nell’arte, nella fuga, nella famiglia, in Dio.
Anzi, in un Dio.
Nel 2018 si converte all’Islam col nome di Shuhadda Davitt.
Ogni tanto qualche sfogo social, come quando in preda a una crisi sparì in chissà quale parte dell’Irlanda.
Non si scappa da sé stessi.
Negli ultimi tempi si stava riavvicinando alla propria arte ma proprio un anno fa il colpo di grazia.
La morte di uno dei suoi quattro amatissimi figli, Nevi’im Nesta Ali Shane O’Connor: anche lui sofferente per problemi psichici aveva deciso di porre fine alla propria esistenza.
L’annuncio lo dà la madre con un post strappalacrime sui social.
Da quel momento, come ogni donna e madre, è stata una deriva, un lento avvicinarsi alla propria di fine.

Sinéad O’Connor è stata un’artista devastata dalla vita, che si è sentita abbandonata da sé stessa.
Un simbolo per la propria gente ma che non voleva essere tale.
L’Irlanda tutta la piange, come le lacrime dei tempi bui.
Ma si tratta di un paese rigoglioso, creativo, fatto di persone accoglienti e gentili che non è riuscito a proteggere la sua musa.
La televisione nazionale ha chiesto il rispetto per il dolore dei cari e della famiglia.
E di una nazione.
Tanti ragazzi tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta hanno riscoperto le bellezza e la dolcezza di quella terra: e se gli U2 ne insegnarono la caparbietà, la voglia di non mollare mai, è in quello sguardo dolce e tormentato del video di ‘Nothing Compares to You‘ che tanti adolescenti della mia generazione si immedesimarono.
Alla ricerca di qualcosa che Sinéad aveva smarrito, e ahilei (ahinoi) non ha più trovato.
Che il blu del cielo e del mare d’Irlanda che si baciano sulle Cliffs of Moher possano custodire finalmente quella pace interiore che ha mancato per tutta la sua vita, di artista, di donna e di madre.

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