THE CULT – Under The Midnight Sun
Un album onesto e di qualità che non sfigura affatto con i lavori del recente passato
La coppia formata da Ian Astbury e Billy Duffy torna con “Under The Midnight Sun”
Il ritorno dei Cult per il sottoscritto è come manna dal cielo dal momento che la band inglese è il mio gruppo favorito sin da quando, adolescente nella metà degli anni Ottanta, comprai la casetta di “Electric”, album della svolta hard rock grazie alla produzione senza fronzoli del guru Rick Rubin.
Da lì in avanti ho sempre seguito la band apprezzando ogni sterzata stilistica compiuta dalla coppia Astbury/Duffy.
La storia dei Cult è sempre stata caratterizzata dalla contrapposizione cosmica di due modi diversi di approcciarsi alla musica.
Se Ian ha sempre privilegiato l’aspetto spirituale ed intimo dell’animo umano, Billy ha sempre spinto verso l’aspetto più sanguigno e da arena rock.
Questi due universi paralleli spesso si sono scontrati, causando frizioni interne che hanno portato al prematuro scioglimento del gruppo negli anni Novanta ma, quando le stelle erano allineate nel firmamento, hanno saputo creare album epocali come “Love” e “Sonic Temple”, solo per citarne due.
I Cult tornano sugli scaffali di dischi con “Under The Midnight Sun” (il titolo è un riferimento a un concerto che la band tenne nel lontano 1986 in Finlandia), dopo il buon “Hidden City” del 2016.
In una recente intervista che ha preceduto l’uscita del disco, Duffy ha dichiarato che il sound sarebbe stato epico e, in effetti, dopo svariati ascolti, non possiamo che dargli ragione. La produzione è affidata a Tom Dalgety (Pixies e Ghost) che dona a queste otto tracce un suono scintillante e ben bilanciato.
Il brano d’apertura, ‘Mirror‘, è un mid tempo che cresce con gli ascolti: nel ritornello Astbury urla «Love» e la mente torna subito al secondo, stupendo disco, della band.
Mi lascia sorpreso non abbiano scelto al suo posto ‘Give Me Mercy‘, singolo più accattivante e uno degli apici qualitativi del disco.
La prima cosa che noto è come la voce di Astbury ormai non sia più graffiante, assomigliando vagamente al ruggito rabbioso di album come “Ceremony”.
Sì, certo, parliamo di un cantante che ha compiuto 60 anni e non possiamo chiedergli la ricchezza di tonalità degli esordi, ma confrontandola con “Hidden City” sembra ancora più scarna e bassa.
Questa parziale carenza, secondo me, influisce sulle otto tracce, che seppur mostrano una band viva e vegeta che sa ancora produrre brani perfetti da un punto di vista puramente formale, dall’altro lato la espone ad una certa piattezza di fondo.
Senza andare troppo indietro nel tempo, quando è uscito “Choice of Weapon” nel 2012, Astbury aveva ancora la forza di cantare pezzi al vetriolo come il singolo ‘For the Animals‘. Adesso invece canta con tanto mestiere, dosando bene la sua voce e quindi evitando gli acuti del passato.
Il disco possiede un alone cupo e vagamente esoterico che lo avvicina ai giochi d’ombra e luce di “Ceremony”: un fascino ancestrale che ci fa intuire come Ian questa volta abbia prevalso sul lato più solare di Duffy.
Tracce come la viscerale ‘A Cut Inside‘ ma soprattutto la sperimentale ‘Vendetta X‘, dove Ian ripete il ritornello come un mantra buddista nel finale, sono tra le canzoni più interessanti del lotto, quest’ultima con melodie e arrangiamenti elettronici che ricordano le sperimentazioni sonore dell’omonimo disco del 1994 (disco criminalmente snobbato dai fans).
Quando i Cult decelerano danno il meglio, come in ‘In Outer Heaven‘ o nella stupenda e cupa semi-ballad ‘Knife Through Butterfly Heart‘, con delle orchestrazioni zeppeliniane a metà brano che conferiscono un’aura di grandezza decadente.
È proprio in questi frangenti che Astbury si sente più a suo agio e dà il meglio di sé, coadiuvato dal fido Duffy che ci delizia con delle armonie di chitarra di ottima fattura, semplici ma mai banali.
Il piccolo gioiello dell’album è la title track, veramente un colpo d’ala magistrale, che ci riporta ai tempi di “Choice of Weapon” (il loro miglior album post reunion per il sottoscritto).
Il brano inizia in maniera soffusa con la voce di Ian che aggiunge un’atmosfera drammatica, che gradualmente accelera in un crescendo da brividi dietro la schiena, e che pone ‘Under‘ come la migliore traccia del LP.
In conclusione, un disco discreto e maturo, ma sicuramente non il capolavoro che molti dicono.
In un mondo musicale in ginocchio che vive dei grandi nomi del passato e poco altro, l’uscita di un album da sette viene accolta da molti con i fuochi d’artificio.
Solo così si può spiegare come in tanti paragonino il nuovo dei Megadeth ai loro veri capolavori degli anni d’oro o come i Maneskin siamo associati ai Faith No More.
Fatta questa precisazione doverosa, i Cult hanno prodotto un album onesto e di qualità che non sfigura affatto con i lavori del recente passato.