SUEDE – Autofiction
Il nuovo album dei Suede è un tributo alle sonorità anni Ottanta
Un ritorno più che gradito, a distanza di quattro anni dall’ultimo “The Blue Hour”
Nei mesi precedenti l’uscita dell’atteso nuovo album degli Suede, “Autofiction”, avevo letto con curiosità che Brett Anderson e i suoi avrebbero realizzato un disco più diretto rispetto ai precedenti.
Se nel recente passato i loro lavori erano caratterizzati da arrangiamenti sinfonici ed orchestrazioni, questa sarebbe stata una raccolta di inediti “quasi punk” nell’intento.
La mia curiosità è aumentata esponenzialmente quando ho scoperto che dietro il banco del mixer c’era Ed Buller, lo stesso produttore del fortunato esordio del complesso di Londra, che nel lontano 1993 scalò inaspettatamente le classifiche inglesi, imponendosi come classico indie degli anni Novanta.
Odio le etichette, ma sicumente i Suede non possono essere inseriti nel calderone del Brit Pop: troppo diversi e cerebrali rispetto a band tipo Oasis e Blur.
Il loro stile musicale, intriso di venature glam rock che strizzavano l’occhio a Bowie e Marc Bolan, passava attraverso il filtro new wave anni Ottanta.
Questa miscela sonora rendeva il loro prodotto unico ed originale, distante mille miglia dalle sirene delle radio commerciali – riuscendo però a rompere anche quel tabù, divenendo, loro malgrado, commerciali pur non essendolo affatto.
All’epoca del loro esordio ascoltavo quasi esclusivamente musica pesante e per puro caso mi imbattei nel loro nome.
Accadde leggendo un’intervista dei Poison Idea, gruppo HC di Portland, nella quale elogiavano il debutto della band inglese: da quel momento in poi fu puro amore per Brett e soci.
Quando successivamente il chitarrista Bernard Butler lasciò improvvisamente il gruppo, ero convinto che non ce l’avrebbero mai fatta a continuare sullo stesso livello.
Invece, reclutarono lo sconosciuto diciassettenne Richard Oakes: non soltanto un perfetto emulo del sound del suo predecessore ma anche un compositore di tutto rispetto.
Basti pensare al terzo album (“Coming Up”, 1996): che si rivelò un successo di pubblico, grazie a singoli scala classifiche come ‘Trash‘ e ‘Beautiful Ones‘.
Oggi, è ancora la coppia formata dall’androgino cantante e dal timido chitarrista che domina incontrastata sui solchi del nuovo “Autofiction”, un disco che, come anticipato, vira su sonorità più dirette.
Se il brano d’apertura ‘She Still Leads Me On‘ è un sentito tributo alla madre di Anderson, scomparsa prematuratamente a fine anni Ottanta, con delle intelaiature sonore che ricordano chiaramente la new wave, è la seguente ‘Personality Disorder‘ che entra di diritto nei classici del gruppo da proporre in sede live, con un ritmo che richiama apertamente i primi Cult di “Dreamtime”.
Il disco possiede un’aura che appartiene più agli anni Ottanta che alla decade successiva, il tutto impreziosito dall’enorme personalità degli Suede.
Anderson continua ad alternare con maestria una voce più bassa al falsetto, noto marchio di fabbrica del gruppo, ed anche il singolo ‘15 Again‘ prosegue sulla stessa falsariga darkwave dei precedenti brani.
Il disco prosegue su livelli qualitativi alti, anche se la ballad ‘Drive me Home‘ non eccelle come altri lenti della loro carriera.
Con la sognante ‘Black Ice‘ ritornano invece gli echi romantici e malinconici del primo album.
La copertina richiama la decadenza cupa del celebre “Dogman Star”, mentre non mi voglio soffermare sui testi dal momento che mi è rimasta impressa una scena esilarante tra la band e Red Ronnie, durante un programma da lui condotto su TMC negli anni Novanta.
Il conduttore romagnolo fece un’ introduzione lunga e tediosa sul significato di un loro testo e, conclusa la filippica, si girò verso il cantante chiedendogli conferma su quanto detto.
Candidamente gli fu risposto che il testo non significava nulla, lasciando di sasso il povero Ronnie.
I Suede riescono a mantenere un’autenticità che abbiamo riscontrato di rado nelle tante reunion posticce post Duemila; i nostri hanno sempre mantenuto dritta la barra del timone, non sbagliando mai un disco (anche il meno riuscito “A New Morning” conteneva dei buoni spunti).
La band si congeda con il giro di basso ipnotico di ‘Turn Off Your Brain and Yell‘, altra canzone che farà la gioia di tutti i fans della prima ora, grazie ad una ritmica sinuosa e avvolgente che sfocia in un vero inno da stadio.
“Autofiction” è un disco eccellente e sicuramente il migliore da quando il gruppo si è riformato una decina di anni fa, ritrovare una band così ispirata ed in forma è una boccata di ossigeno in un periodo non certo felice per la musica.