Le Strisce – Hanno paura di guardarci dentro
Il nuovo e terzo album del gruppo partenopeo Le Strisce, Hanno paura di guardarci dentro, è forse il ritratto di una generazione disillusa – la generazione dei giovani, che potremmo identificare come quella dei nati nel decennio del ’90 -, che tra l’amaro e la rabbia va a constatare il proprio futuro nullo.
In realtà questo lavoro si va a collocare accanto ad una protesta divenuta ormai di massa – forse manierista, di maniera per spiegarci – che tanti gruppi odierni di matrice indie hanno messo in piedi: pensiamo ai più raffinati Ministri, ai più feroci The Zen Circus, al lamentoso Vasco Brondi de Le luci della centrale elettrica, ai più colti de Il teatro degli Orrori capitanati dal quasi intellettuale Pierpaolo Capovilla.
Ma in questo nuovo album de Le Strisce, sotto il punto di vista meramente musicale, il tutto viene condito a volte con un discreto e veloce rock alternativo, altre volte con una base musicale più pop rock che spesso scandisce le canzoni dal tono più delicato (un esempio è Andrea), e non mancano, in queste canzoni, effetti elettronici che sono saggiamente inseriti nell’armonia musicale e che vanno sicuramente a completare l’aspetto sonoro di ogni singola canzone.
I primi temi che escono fuori sono sicuramente lo spaesamento che si trovano difronte i giovani d’oggi – eloquente è il titolo del brano di debutto dell’album, Nel disagio – e, a seguire, la non conoscenza di se stessi, difatti la voce narrante dell’album – la prima persona che pervade i testi delle canzoni –, ma anche i pochi personaggi narrati, spesso non sanno chi siano: in Andrea si dice: “La notte sa confonderti e sei diventata brava a perderti” oppure “Andrea, Andrea chi sei?”, nel brano Gli artisti invece: “non so più chi sei e chi sono”, infine, in Persa: “ti sei persa e fuori non c’è strada per correre e tu resti in un angolo”.
In tutto ciò, c’è una forte denuncia politica – in Ci pensi mai si dice: “corruzione, demagogia in piazza, siete vent’anni di niente” ,“ci sono più ladri che poeti, più verità che segreti” o “le puttane fanno carriera, i figli di papà amano la vita, chi ha passione se la tenga per sempre” – che, oltre all’invettiva, sfocia in una sorta di arrendevolezza e presa di coscienza che ciò non terminerà – infatti sempre in Ci pensi mai, aggiunge: “e così sarà per sempre” e, ne L’ultima sigaretta, il concetto viene ribadito: “sognammo talmente forte da avere per sempre mal di testa”, come in 2012: “nel duemiladodici non è successo niente” – che ci porta, in ultima istanza, anche verso una sorta di nichilismo e malinconia, come è espresso, fra le righe, in Cosa deve fare un giovane d’oggi per potere ridere.
Questo nichilismo viene ripreso nei costumi d’oggi dei giovani, nelle loro maschere, nelle loro mode – spesso musicali – che vengono appunto attaccate, insieme alle pretese pseudo intellettuali o al tono semi-intellettuali che taluni giovani si danno e che sono fallaci e fasulle – pensiamo alle feroci accuse che troviamo in Beat generation: “fra mille citazioni non so ancora tu chi sei”, e in Comete: “prima alternative, indie, rapper, hipster, è solo moda, tutto gira, prima o poi tornerai triste”.
Questo album naviga fra la malinconia legata alla consapevolezza di uno status quo che non terminerà presto – anche le ultime due canzoni dell’album hanno un titolo emblematico come Persa e Non è destino -, e una rabbia, una protesta sociale, che si disperde in diverse filippiche – come una molto divertente, in Dentro, contro la musica rap: “mio padre mi ha sempre detto che la musica è un dono, e grazie al cielo in Italia ci sono pochi rapper”.
Nonostante ciò, si ritrovano anche dolcezza e delicatezza in altre canzoni che hanno tematiche vagamente amorose e intimistiche, e che comunque constano di una loro poeticità (Andrea, Dentro, Persa e La sindrome di Stoccolma).
Il lavoro è di buona fattura, non male la composizione musicale delle canzoni e in certi tratti la cifra stilista dei testi si fa molto alta, peccando solo nella protesta – come già detto, di maniera – presente in questo album.
Un vizio di forma giustificabile e sopportabile vista la reale situazione italiana e anche la non banalità dei testi, che è sicuramente da apprezzare al giorno d’oggi.