Shawn James – On the Shoulders of Giants
Mi chiamo Francesco e sono un fotografo.
Vi sembrerà una cosa alquanto bizzarra, ma questo dettaglio è la chiave per comprendere questo album e il perché mi sia seduto qui a scriverne una recensione.
“On the Shoulders of Giants” è l’ultimo album, uscito nel 2016, di Shawn James.
L’ho scoperto in uno di quei momenti in cui mai ti aspetteresti tanta bellezza senza il minimo preavviso.
Era la sera del 31 dicembre e, come al solito, ero in anticipo sulla tabella di marcia.
Per farmi compagnia in quel quarto d’ora, mentre sistemavo le scartoffie sulla scrivania, ho accettato il consiglio di YouTube e ho fatto partire “Shawn James – Delilah”: un mondo di immagini mi ha invaso la testa, ed ho immediatamente deciso che il verbo andava sparso.
Stiamo parlando quindi di blues, di folk, di soul.
Si parla di una voce sporca, ruvida, profonda e potente come poche.
Quelle voci che sanno scuotere le anime, quelle voci che sembrano invecchiate in botti di rovere annerite e forgiate dal denso fumo del sigaro.
Si parla di una chitarra che detta un ritmo cadenzato e dannatamente southern.
Ecco, la ricetta per quanto riguarda i miei gusti musicali funzionerebbe alla grande già così, ma quando il primo pezzo (‘Hellhound‘) attacca è chiaro che qualcosa di nuovo, di innovativo, in questo album c’è.
Le atmosfere sono un’alternanza estremamente d’effetto di luce ed ombra, di bene e male.
L’odore di sigaro e whisky si alterna a qualcosa di più aulico, di solenne, avvolto dall’incenso, illuminato dalla calda luce di candele e cadenzato dal testo di ‘Delilah‘.
Si finisce col lasciarsi andare alla musica e alle immagini, si finisce in una piacevolissima spirale sul fondo della quale puoi trovare un posacenere traboccante o il sacro Graal, dipende solo da quello che hai bisogno di trovare.
L’intero album rimanda ad immagini del profondo sud, sbiadite dal sole basso all’orizzonte e slavate dall’acqua del Mississippi, ma questo one-man-band (indovinate un po’?) non viene dalla calda e umida New Orleans.
No, nient’affatto: Shawn James viene dalla gelida e ventosa Chicago.
E dal cuore dell’Illinois, casa natale del blues bianco, scende sull’intero album il retrogusto di pioggia e atmosfere ovattate, che invece di fare a pugni con tutto il ben di Dio Southern di cui si compone il suo bagaglio musicale va a miscelarsi nella combo definitiva.
‘Belly of the Beast‘, traccia numero due, è il perfetto riassunto di questa combo: luci ed ombre, albe e tramonti, vento e caldo torrido…l’intero album è una gigantesca battaglia di immagini, una battaglia da gustarsi con le orecchie e l’immaginazione per l’intera durata.
‘Lift Us Up‘, la terzultima traccia dell’album, è invece talmente intima e ovattata da sembrare un intermezzo, un pezzo cantato solo per se stesso che porta ai due brani che chiudono l’album: ‘Captain Stormalong‘ e ‘Preacher Foretold‘.
Oltre al grande dualismo visivo evocato, a fare da linea guida dell’album sono le melodie spesso ripetute in una litania solenne, un’ossessione, quasi ipnotica, spezzate all’improvviso da variazioni sempre d’effetto: come un personalissimo flusso di coscienza, nel quale si cerca concentrazione ma alla fine si rompe lo schema e si finisce con l’improvvisare.
Ecco, il polistrumentista Shawn James ha decisamente fatto centro nel cuore di un fotografo amante del blues.
E se è riuscito nell’impresa di farmi sedere ad una scrivania per scrivere una recensione, sono certo che orecchie allenate al folk-blues e menti pronte ad un viaggio tra Chicago e il sud degli States sapranno apprezzare a pieno questo album uscito da una vecchia botte di buon whisky e lasciato in balìa del gelido vento dell’Illinois a rinfrescarsi.