Colony – Music For Empty Rooms
Colony è un progetto musicale di elettronica, ambient e sperimentazione nato nel 2007 con l’album This Machine Never Sleeps.
A dispetto del nome, che rimanda a suggestioni Kraftweriane sospese tra luci laser e Guerra Fredda, ci troviamo di fronte ad un progetto italianissimo, con base a Verona.
Al giorno d’oggi scegliere la strada della sperimentazione può diventare un’avventura alquanto pericolosa quanto decidere di confrontarsi con un album pop.
La missione più ardua per artista simile che si voglia definire tale è quella di abbandonare la classica formula chitarra, basso e batteria e fissare negli occhi l’oscurita del suono, ascoltare con attenzione il silenzio, fare emergere dalle tenebre note e rumori ai confini della non-esistenza per catturare timidi lampi di bagliore microcosmico.
Ambienti vuoti, come case da esplorare dall’esterno, la percezione di spazi e strutture da visitare senza penetrazione o ingresso, cullando col pensiero non solo l’ipotetico scenario oltre le pareti, ma cogliendo l’essenza della storia di persone e oggetti, come l’abbozzo di una lontana radiazione di fondo.
Non a caso l’album si apre con Empty Houses, dove il crescendo di sinth gotici riverberati si incrocia con pochi suoni di piano appena abbozzati, note che rimandano a classicismi di epoche passate e palesano due riferimenti abbastanza prominenti in questo lavoro: Brian Eno e Vangelis.
L’epigono veronese del più celebre architetto sonoro tiene le distanze non solo dal rock, ma anche da forme più moderne di espressione che si affidino a campionamenti, distorsioni e randomizzazioni frattali, a cui le ultime tendenze della musica ambientale elettronica stanno strizzando l’occhio.
Qui accade quasi il contraio: la costruzione musicale dei brani risulta ciclica e molto spesso prevedibile e sposa le linee di mantra meccanici alla rincorsa di schemi precostituiti, rinunciando così a istinto e spontaneità.
Il tema degli ambienti che parlano allo stato onirico e percettivo dell’uomo prosegue con Once There Were People Here, dove l’aura cabalistico-sacrale dell’introduzione cede il passo ad un piano nudo specchiato su riverberi ricorsivi, aprendosi di più alla melodia e tradendo la premessa-promessa di un lavoro più inconscio e meta-umano, con un brano più vicino ad un’idea di colonna sonora quanto un Elton John mefitico che lascia la presa su un’idea di non musica per non musicisti.
La musica per ambienti teorizzata da Brian Eno è un tappeto sonoro nel quale vengono trasferiti i suoni di tutti i giorni, nevrosi e allucinazioni incluse.
Erik Satie soleva dire che la musica che voleva creare «doveva confondersi con il suono dei coltelli e delle forchette a tavola». Brani come You Never Came Back Home invece rimandano di più ad un chill-out commerciale plausibile come jingle pubblicitario per una nuova prodezza di casa Apple. Suoni concilianti, rotondi e accattivanti trovano invece un’inaspettata evoluzione a metà del brano. I cori potenti e evocativi di una straordinaria Maria Messina in odore di Kate Bush, inchiodando con classe inarrivabile il migliore brano dell’album al tappeto sonoro.
La musicalità temebrosa e impalpabile a cui attinge il piano di Colony per tutto l’album ci accompagna anche verso la fine di questa esplorazione senza seguire una vera e propria direzione.
La ciclicità, difficile da definire in un sogno lucido tra dormiveglia e paralisi, è forse uno stratagemma troppo semplice che rivela timidezza in un’auspicabile apertura alla subcoscienza. Non viene concesso nessun azzardo alla cacofonia e l’ambiente decostruito dipinto dall’album è asettico ma mai veramente minimale.
La distruzione totale è una scelta quasi dovuta nella ricerca di un’uscita dalla annebbiante dedaloscopia dei loop. «Time Destroys Everything» prova a chiudere le fila di questo lavoro concettuale tornando a quelle atmosfere alla «Akira» che di più mi hanno colpito dell’album.
Un delicato messaggio poetico e distopico cerca di fars cogliere in tempo prima del risveglio dell’Io, quando il ricordo del subcosciente non è ancora distrutto da alcun elemento di disturbo. Il nuovo album Time Destroys Everything sembra partire da qui. Le premesse in tal caso sembrano molto interessanti.
L’assenza di piano e drum machines potrebbe essere la mossavinvente per rendere il lavoro di Colony più prossimo all’arte che alla musica.
È proprio dagli artisti come questo che ci aspettiamo azzardi abrasivi e più coraggiosi.