Movion – Movion
Se per l’occhio attento di Giorgio Canali i postriboli del post rock erano già affollati nel 2002, figuriamoci adesso.
Tantissimi infatti sono i gruppi che ad oggi si sono ritrovati in questo enorme calderone, vittime chi di una sfumatura più dark, chi metal o new wave con finiture noise.
Abbiamo affrontato più volte il discorso su queste pagine, raccontandovi di gruppi che in un qualche modo si sono riusciti a scostare dalla mischia o che, per certi aspetti, ci sono sembrati spiccare su altri.
Oggi vi proponiamo un gruppo che, al contrario di come citava Canali, nei riverberi del post rock ci sguazza ma lo fa senza piagnucolare anemicamente.
Per quale motivo?
Semplicemente, perché la loro omonima opera prima è un disco strumentale.
Forti di un ottimo background sonoro, i torinesi Movion (al secolo Alessandro Angeleri alle percussioni, Nicolò Tamagnone alle chitarre e Antonio Vomera al basso) affrontano le nove canzoni del loro album con una voglia folgorante di sperimentare nuove sonorità e sconfinare musicalmente verso l’ignoto.
Insomma, i Movion intendono lasciare interdetti gli ascoltatori.
Il disco è essenzialmente frazionato in due parti.
Una più distesa e sperimentale, nella quale la band si prende tutto il tempo necessario per inventare e dipanare melodie ricercate; un’altra in cui mette in campo una vera e propria esplosione di suoni noise. Attenzione: tutto questo esercizio si replica, ed è avviluppato uniformemente in tutti pezzi del disco. Questa caratteristica rende i brani delle vere e proprie suite musicali.
Si parte con ‘Achille the Turtle and Misfortune‘, il cui titolo già rimanda a scenari epicamente immaginari e, se così promette pura energia, le musiche non sono da meno: trasudano atmosfere lontane, geometricamente perfette e saggiamente rarefatte.
Sulla stessa falsariga anche pezzi come ‘Red Moquette‘ e la bellissima ‘Vacuum‘, la quale ben scopre l’impegno creativo e stilistico dei Movion. Qualcuno potrà riconoscere infatti le influenze dei Tool anni ‘90 – in ‘Vacuum‘ più che in altri.
A spezzare l’album in due ci pensa ‘So sweet, so dead‘, una sessione sperimentale nuda e cruda che funge da confine con quella che è la parte più noise del disco.
“Movion” infatti contiene al suo interno anche brani pur sempre sperimentali ma più calibrati, rabbiosi e decisi come ‘Janis Joplin’s‘, ‘Almost Human‘, ‘Building Blocks‘, ‘Isn’t it too Dreamy‘.
Sono momenti, questi, in cui i Movion tirano fuori gli artigli e ci trascinano di peso in una battaglia sonica strumentale a colpi di basso, batterie energiche, riff di chitarra tiratissimi e synth avvolgenti.
Anni fa durante una delle edizioni del Mei di Faenza, andai ad una conferenza: nomi grossi del giornalismo musicale si divertivano a mio avviso a sminuire i gruppi emergenti, usando per essi e le loro opere aggettivi come “chitarre zeppeliniane, riverberi youthiani” o, peggio ancora, “riff hendrixiani”.
Questa gente probabilmente dei Movion affermerebbe che sono troppo “tooloniani” o che si rifanno al periodo delle “spore soniche marleniane”.
Io preferisco descrivere i Movion come una valida band emergente che alla prima prova su disco ci dimostra di avere tanto da dire.
I paragoni e gli aggettivi tristi li lasciamo a quelli con i capelli bianchi, gli stessi che hanno permesso il crollo dell’industria discografica alternativa.
Per concludere, andrebbe fatto un plauso a quel manipolo di etichette locali (Calista Records – Bookhouse records – Canalese Noise Records – Vollmer Industries – Tadeca Records – Edisonbox) che hanno permesso la pubblicazione di questo lavoro.