King Krule – Man Alive!
Il cantautore di Southwark è la nemesi delle hit da classifica.
I suoi dischi sono come il ritratto di Dorian Gray nella soffitta delle chart inglesi.
Rosso come Ed Sheeran, completamente agli antipodi del suo modo di scrivere e comporre.
“Man Alive!” è il terzo album di Archy Ivan Marshall, al secolo King Krule.
Questo suo nuovo disco, arrivato a tre anni dal precedente “The Oz”, è stato registrato quasi completamente dallo stesso Archy Marshall (tranne che per il sax di Ignacio Salvadores) e con l’aiuto di Dilip Harris alla produzione.
Un album che appare spezzettato in episodi diversi, con ispirazioni a volte lontane tra loro.
Tuttavia, visto alla giusta distanza, rispecchia in pieno l’anima del cantautore più controverso della nuova leva britannica.
Un disco notturno, fumoso, che si apre con un brano che potrebbe pagare qualche debito ai Kraftweerk e continua come un ritorno a casa per i vicoli umidi di Londra.
Vicoli con tombini maleodoranti, ricordi che tornano a galla, voglia di fumare e di volare con la mente.
Annegando la malinconia, manco a dirlo, in una pinta di birra.
A 25 anni King Krule ha raggiunto, a mio modo di vedere, un obiettivo che in pochi riescono ad ottenere nello scenario musicale contemporaneo: ha un suo marchio di fabbrica.
La sua musica si distingue da quella di altri musicisti e questo concetto si è rafforzato album dopo album.
Non c’è voglia di stupire nei brani di “Man Alive!”, c’è piuttosto la conferma di quanto sia affascinante e respingente al contempo la musica di Archy Marshall.
Uno di quegli artisti che puoi amare od odiare, senza mezze misure, perché la sua musica è così, senza mezze misure.
Le sue chitarre sono essenziali, trascinate sui pezzi dietro alla sua voce lenta e biascicante. Ma in questa musica c’è chiarezza, onestà, cosa non facile da trovare altrove.
In questo album c’è il post punk, la new wave, riferimenti a certa discografia dei Radiohead, influssi derivanti dal Damon Albarn più sperimentale.
Il tutto mescolato alla maniera di King Krule che in uno dei suoi dischi più eterogenei riesce a mantenere comunque il comune denominatore che aveva segnato le sue produzioni precedenti grazie alle tinte buie e alla sua voce che inciampa su ogni verso.
Strisciando alle volte ma sempre raggiungendo le viscere dell’ascoltatore.