Fucina 28 – È arrivato il tempo
È quantomeno un compito arduo, l’analisi critica dell’album d’esordio dei Fucina 28, band indie-rock originaria di Pisa e nata nell’ottobre del 2011 che ha dato alla luce il primo lavoro, intitolato È arrivato il tempo.
Questa band – in realtà come tante altre – si è formata durante cene conviviali in cui tra amici si suonava per scherzo, per passare il tempo insieme al civico 28, a casa di Piero Giamattei (voce e chitarra del gruppo).
Scherzo che poi si è tramutato in un progetto serio e che oltre a Giamattei conta altri tre elementi: Vito Pietrapertosa alla chitarra, Ornella Varvaro al basso, ed infine Simona Tarantino alla batteria.
Il nome della band trae ispirazione non solo dal già citato civico 28 ma anche da una metafora artistica.
In un’intervista i Fucina28 hanno così spiegato: «La fucina è il fornello su cui si arroventa il ferro, per poi dargli forma sull’incudine; in senso più ampio, è la bottega del fabbro, un luogo in cui si fondono i metalli per creare cose nuove».
I richiami musicali che ci vengono alla mente, di primo acchito, si desumono dal cantato: molto simile sia a quello dei Marlene Kuntz sia a quello dei primi Verdena, e non è un caso che il cantante Piero Giamattei, si faccia chiamare in arte Peter Kuntz.
Da un punto di vista meramente musicale, questo album gioca su una impostazione varia.
Per alcuni versi partiamo da un post punk – che può ricordare i primi The Cure, più delicati e morbidi – questo nella canzone La differenza – per poi approdare a distorsioni musicali che possono richiamare un timido noise (L’Incostanza e Indie Crack).
Al tempo stesso assistiamo anche ad una melodia ed un’atmosfera non troppo distante dai The Smiths dei tempi di Ask (soprattutto nel brano Presidente).
Oltre a presentarsi come un breviario musicale degli anni ’90, il disco presenta tematiche sociali un po’ più centrate rispetto ai dispersi spunti compositivi: le liriche prendono le distanze da tutti quei cliché e quei pregiudizi preconfezionati già imposti dalla società, definita ottusa ed oligarchica, rassegnata a sé stessa.
Società composta da faccendieri, colletti bianchi e “presidenti” a caccia di un’affermazione totale, estranea e scevra dal concetto di meritocrazia.
La connotazione amara di questi testi – o come loro dicono, di questo “crack sociale” – non deve spegnere, ma anzi, incoraggiare la speranza di tutti coloro che auspicano e fanno proprio il bisogno di un cambiamento.
L’ultimo rifugio da questa realtà cinica e violenta sembra essere l’io, al riparo Sotto quel cuscino, alimentato da immagini ed illusioni che la mente dispensa come risposte, nell’ottica della sola ed unica soluzione: la presa di coscienza de L’Incostanza di tutte le cose.
L’unico sforzo proiettato al superamento di questa precarietà dominante, prende forma nello spiccare un “volo rischioso e sfacciato”, partendo dai limiti (propri e della società) e andando verso il superamento di questi, verso la conquista di un tesoro che non si può comprare: il proprio coraggio.
Il disco, come molte opere prime, non è ancora un lavoro maturo, ed è più che altro una bozza, un canovaccio di diverse ispirazioni musicali, interessanti ma non ancora del tutto ben amalgamate fra loro, e che risentono, dunque, di un eccesso di giovinezza ed inesperienza artistica.
Non siamo però del tutto pessimisti, perché c’è più di uno spunto interessante in questo lavoro, e siamo curiosi, in un prossimo futuro, di ascoltare un nuovo e secondo album nel quale si vada ad espletare quella maturità artistica che qui, purtroppo, non troviamo.
Il nostro voto per questo album è una sufficienza, ma ovviamente siamo speranzosi che il prossimo album ci possa stupire grandiosamente.