Foals – What Went Down
Dici Foals e a me subito viene in mente quell’amico onesto che conosci da una vita, con cui ti sei magari perso di vista ma del quale ti fidi sempre – mai un gesto fuori posto, mai una mancanza di rispetto. E sì che di strada assieme ne avete fatta. Esattamente come questo quintetto di Oxford che non ho mai ritenuto come uno fra i tanti gruppi formatisi nel boom dell’industria indie dei primi anni zero. Il che non è poco, per uno che rimpiange (pur non avendoli mai vissuti), gli esordi di gente come i Maximo Park (belli i tempi di “Apply Some Pressure“, vero?).
È peculiare il fatto che i Foals abbiano spesso registrato i loro album lontano dalla loro terra. Elemento da tenere in grossa considerazione se è vero, come è vero, che la distanza, alla fine, fa bene e che ti permette di ponderare meglio le cose: le fatiche dei Foals non sono mai apparse pretenziose, anzi, mi sembra che “What Went Down” (registrato in Francia, a Saint-Rémy-de-Provence – dove, per inciso, Van Gogh, ricoverato nel locale manicomio, dipinse la Notte Stellata) costituisca un buon passo in avanti. Yannis Philippakis e soci danno vita ad un album magmatico, denso, ma anche più arioso, ragionato. Evidentemente non penso ad un frontman pacificato con il mondo se mi viene a dire “When I see a man / I see a lion” (forse che lo spettro di Van Gogh si sia fatto sentire?); al contempo Yannis riesce ad incanalare la sua inquietudine in un cantato più disciplinato, anche meno effettato, meno sbavato (qui risiede, io credo, la massima distanza da Antidotes), tant’è che non fatico ad immaginare il quintetto fronteggiare ottimamente, senza cadute eccessive, un pubblico da stadio (ascoltare l’outro di ‘What Went Down‘, per conferma).
È in ‘Mountain At My Gates‘ e ‘Night Swimmers‘ che i Foals ci indicano la strada maestra per la comprensione dell’album (e sembrano quasi dirlo: “You show me a signpost for where I should go”): certo, non sono più quelli di Antidotes, le esplorazioni nelle sonorità math sono ormai lontane (salvo, forse, qualche residuato nelle ultime tracce del disco) a favore di ammiccamenti decisi alla disco-funk, o al post-punk, più in generale (in tal senso, il basso di Snake Oil è sufficientemente esplicativo, sebbene il pezzo appaia un tentativo piuttosto ardito). Allo stesso tempo, però, gli elementi che hanno fatto la fortuna di Total Life Forever e Holy Fire sono presenti, mixati in un labor limae discretamente minuzioso: andamento ossessivo, ai limiti del nervoso, delle percussioni (non venitemi a dire che il piede non parte da solo, ad ascoltare ‘Albatross’), uso intelligente del synth, ritmi in crescendo nel finale (la già citata ‘Albatross’ e ‘A Knife In The Ocean’).