Field Music – Commontime
Quando ero piccolo amavo vedere una delle prime trasmissioni dedicate ai cartoni animati. Si chiamava “Gulp! Fumetti in TV“, ed il mio personaggio preferito era un buffo investigatore privato che si chiamava Nick Carter.
Insieme ai fidi Patsy e Ten era sempre capace di smascherare le malefatte del suo acerrimo nemico: il maestro del travestimento Stanislao Moulinski.
I fratelli Peter e David Brewer da Sunderland, attivi da un decennio sotto il nome di Field Music, mi ricordano un po’ il simpatico Moulinsky nel loro essere ironicamente abili trasformisti. ma con una differenza sostanziale, perché i due non fanno nulla per nascondere i loro travestimenti, rendendoci liberi di scoprirli a mano a mano che procediamo nell’ascolto delle loro composizioni.
I precedenti cinque album, con diverse modalità, hanno permesso ai due di ottimizzare la loro tecnica di fermare lo scorrere del tempo, scattando delle istantanee qua e là, per poi riproporle vestite a nuovo.
Così facendo sono riusciti a perfezionare un suono assolutamente distintivo nonostante i molteplici ed evidenti modelli di riferimento.
Già dal primo album autointitolato uscito nel 2005, hanno saputo pescare dalla new wave e dall’art pop degli anni ’70, mischiandolo con un certo tipo di post-punk e con le armonie vocali della Motown. Le strutture dei Roxy Music, dei 10cc, degli XTC (tanto per citare altri espliciti riferimenti), sono la base di partenza su cui i due amano costruire il loro wall of sound che ha la grande prerogativa di suonare estremamente lineare e semplice anche quando le sovrastrutture melodiche e di tessitura vocale potrebbero far crollare il tutto.
I fratelli si sono presi un bel periodo di silenzio dopo il mezzo passo falso di “Plumb”, che 4 anni fa aveva segnato un piccolo passo indietro, grazie a un leggero cambio stilistico frutto di innesti elettronici non proprio riusciti ed un appiattimento della loro pirotecnica scrittura.
“Commontime“ segna non solo il proseguimento del loro sodalizio con la Memphis Industries che ne ha seguito passo passo la carriera, ma sancisce il loro ritorno ad altissimo livello. Questo nuovo album forse non è all’altezza del loro inarrivabile “Field Music (measure)” del 2010, ma consolida e certifica il ruolo del duo come uno dei gruppi più unici del pop-rock britannico.
L’apertura di ‘The Noisy Days Are Over’ è esplicativa del sound dei fratelli Brewis e della loro ritrovata vena, la perfetta unione tra gli XTC e gli Steely Dan viene santificata sotto uno stellato cielo funky, il tutto impreziosito da un sontuoso finale di fiati.
‘Disappointed’ e ‘They Want You To Remember’ sono perfette con il loro andamento candenzato e il rimando e certe soluzioni di Todd Rundgren. Gli archi, le percussioni, gli intrecci vocali di ‘But Not For You’ riescono a coinvolgere e divertire in maniera totale.
Growing up is easy now / But not for you / A look that says / That’s what I want / It’s not for you / All the jealousies we have worn out / They’re not for you / And your friends all out of time / For you
L’incipit felpato di ‘Don’t You Want To Know What’s Wrong?’ è più Steely Dan degli stessi Fagen e Becker, mentre fa ancora capolino il sogghigno luciferino di un’altra premiata ditta (Partidge e Moulding) dietro ‘How Should I Know If You’ve Changed?’.
Uno dei vertici del disco è ‘Trouble At The Lights’, giustamente messa al centro come perfetto spartiacque dell’album, grazie ai suoi mille poderosi stacchetti, trovate, rallentamenti e cambi di ritmo. Il tutto condito da una chitarra alla Adrian Belew.
Alcune canzoni non convincono per soluzioni ritmiche (‘I’m Glad’), mentre altre (‘Same Name, It’s A Good Thing’) sono eleganti bignami pop-rock di gran classe vestiti di lustrini alla Hall & Oates.
Pianoforte, archi e voce assecondano la morbida sveglia di ‘The Morning Is Waiting For You‘, prima che la contaminazione ritmica di ‘Indeed It Is‘ faccia impennare di nuovo le pulsazioni jazz e prog.
Gli arrangiamenti ricchi, stralunati, eleganti e lucidi di ‘That’s Close Enough For Now‘ sembrano sempre sul punto di strabordare, e ci vuole tutta la perizia navigata dei due traghettatori per far si che questo non accada mai.
Il gran finale di ‘Stay Awake‘ tra cambi di ritmo e sovrapposizioni vocali, è una sorta di afflato confidenziale, un dialogo tra la band e i propri fans, oppure tra i due fratelli, o ancora tra due persone che vivono una relazione complicata, chissà…
I might seem / A little reticent / Sometimes I can be / Miles away, days away / And I’m sorry if I’m ever short with you / I don’t mean it / It’s a good job that you know me so well
Nelle 14 tracce di cui é composto l’album troviamo un perfetto bilanciamento tra la predilezione dei Field Music per le strutture inusuali, e la strumentazione non convenzionale, il tutto mantenendo un gusto narrativo decisamente maturo.
L’estetica pop raffinata si interseca con suggestive ipotesi di contaminazione. ed è proprio qui dove risiede la magia dei due polistrumentisti: nella loro perfetta conoscenza della materia pop-rock e nella conseguente abilità di alchimisti nel saperla trasformare in qualcosa di piacevolmente diverso.
Così i due hanno saputo creare un piccolo microcosmo, facendo diventare complesse e “altre” le loro mille ispirazioni, il tutto condito da una grande qualità della struttura, e una raffinatezza compositiva e eleganza sonora senza pari.
In definitiva, si confermano come uno dei gruppi più dotati e convincenti del panorama pop-rock britannico.
Bentornati.