FAT WHITE FAMILY – Songs for our Mothers
Ormai la loro fama li precede.
Quando si parla dei FAT WHITE FAMILY vengono in mente quasi più gli aspetti sgradevoli, politically incorrect e anarchici della band piuttosto che il loro indiscusso talento musicale, talento che aveva portato la band multietnica di Brixton, sud di Londra, capitanata dal cantante Lias Saoudi e dal chitarrista Saul Adamczewski (gli altri membri sono Adam Harmer: chitarra, Nathan Saoudi: tastiere, ed il nuovo Jack Everett, batteria) a pubblicare il loro fantastico album di esordio “Champagne Holocaust”, che anche io avevo accolto entusiasticamente.
La principale ragione di questo entusiasmo, a parte l’attenzione morbosa dei media, era stata sicuramente la loro abilità nel miscelare elementi garage punk, influenze folk, spunti lisergici e manciate di lo-fi, e trasformare il tutto in un risultato tanto sbilenco quanto stranamente equilibrato, tanto irriverente e dissacrante quanto orecchiabile.
Il costante touring della band ha portato come effetto sia un costante miglioramento on stage quanto un proliferare di aneddoti riguardanti i loro eccessi sia sul palco che fuori.
Questo clamore sulle loro torbide storie sembra quasi fatto ad arte per distogliere l’attenzione dal fatto che i componenti della band sono molto più intelligenti e preparati culturalmente di quanto loro stessi vogliano farci credere, non solo perchè la copertina del loro primo singolo è volutamente ispirata da quella di “20 Jazz Funk Greats” dei Throbbing Gristle, ma per tutta una serie di riferimenti e citazioni sia musicali che testuali che non possono lasciare indifferenti.
Nel primo album si parlava di stupri, pedofilia e su come bombardare Disneyland; qui troveremo serial killer, fascismo e relazioni difficili che sfociano in cieca violenza.
C’è la voglia sempre e comunque di stupire, di essere fastidiosamente repellenti, di irriverenza depravata, ma è voluta e razionale, mai stupidamente cieca, ed è lì dove, piaccia o no, dove risiede la loro enorme attrattiva.
Senza troppi giri di parole, Lias Saoudi e compagni fanno centro anche stavolta, con un album più scuro e claustrofobico dell’illustre predecessore, un disco che, nonostante il titolo, “Songs For Our Mothers“, mai e poi mai faremmo ascoltare alle nostre mamme, un album che esce per la loro personale etichetta, la Without Consent.
‘Whitest Boy On The Beach‘ ha il compito di aprire l’album con il suo ritmo sostenuto e l’incedere surf accompagnato da chitarre e synth, un brano morboso ed appiccicoso, che già sappiamo non sarà il filo conduttore di tutto l’album, perché a loro piace destrutturare la forma canzone come nella migliore tradizione post-punk, ma con un eclettismo stilistico tutto nuovo.
‘Satisfied‘ è uno scuro carrozzone electroblues che si insinua e colpisce con una chitarra tentacolare e un testo che va a scomodare addirittura Primo Levi:
My penis was an oblong pebble/ My balls two benevolent stones
She looked like Primo Levi sucking marrow out of a bone / I’m so easily satisfied
And I am always hungry!
Il brano è stato registrato a NY negli studi di Yoko Ono, suonato con gli strumenti appartenuti a John Lennon e prodotto dalla band insieme a Sean Lennon.
Lo stesso Sean descrive così l’incontro ed il lavoro con la band nell’East Village di NY: «Sono caotici e fuori controllo. I Fat Whites hanno personalità estreme e sembra un miracolo che loro possono essere insieme nella stessa stanza. In ogni caso ho scoperto presto che le cose sono molto più piacevoli di come sembravano. La loro reputazione è reale, ma allo stesso tempo, non lo è».
La seguente ‘Love Is The Crack‘, come un lento e sghembo blues, pone l’accento (e non sarà l’unica volta) sul rapporto tormentato tra due persone.
Il “crack” cui si riferisce il titolo non è il tipo di stupefacente (come potrebbe sembrare conoscendoli) ma lo schioccare della frusta che implica un rapporto di sudditanza, amplificato dall’organo che chiude il brano. Il coro da condannati a morte che apre ‘Duce‘ mette i brividi, soprattutto quando parte una ritmica marziale ed una chitarra oscillante che inquieta e riecheggia a lungo.
Eat the pope / Saving grace / Purity / All the way / He’s the one we’ve chosen / Him and no one else / Come boy Come girl Black shirt Black lace oh e ah / He’s the one we’ve chosen / Bleed for no one else
La breve ‘Lebensraum‘ è una sghemba ballata folk/hawaiana che fa ciondolare la testa, mentre il successivo funkeggiante blues ‘Hits Hits Hits‘ riprende il tema delle relazioni difficili, narrando della complessa e violenta relazione tra Ike e Tina Turner, forse metafora del rapporto tra il maggiore dei fratelli Saoudi ed il chitarrista Saul Adamczewski.
There’s a hatred in my bones / Just can’t live without / Sister Tina don’t be shy, patience is starting to bruise / Better spread that nutbush wide / What have you got to lose?
‘Tinfoil Deathstar‘ è una delle canzoni migliori del lotto con un organo spaziale, linee di basso rimbombanti e una voce psichedelica in falsetto che narra di visioni derivate dall’abuso di eroina, dove fa capolino anche il “morto di stato” David Clapson.
E che dire di ‘When Shipman Decides‘?
Sotto una rassicurante ballad con i fiati a tener banco e un ritmo da luna park si nasconde in realtà il mondo del terribile serial killer britannico Harold Shipman, morto suicida in carcere dopo aver ucciso presumibilmente oltre 300 persone con l’uso della morfina.
‘We Must Learn To Rise‘ è una lunghissima e scurissima marcia, un vero inno con una tromba a fiancheggiarci per farci tenere il ritmo del passo, mentre la chitarra si rincorre impazzita nel finale garage e post-punk. A concludere il tutto ci pensa ‘Goodbye Goebbels‘, un’altra ballata folk sghemba, quasi una filastrocca da cantare in coro dopo una sbronza tenendo in alto una pinta di birra al pub, se non fosse che la canzone parla degli ultimi istanti nel bunker di Hitler prima del suicidio del leader nazista.
Non è mai facile superare l’esame del secondo album, soprattutto quando le aspettative sono così alte, ma con “Songs For Our Mothers“, i FAT WHITE FAMILY lo passano a pieni voti, con un disco forse non così immediato e coinvolgente come l’esordio, ma più maturo, consapevole, riuscendo a maneggiare il loro esplosivo materiale sonoro con grande aggressività, incuranti del fatto che possa esplodergli tra le mani.
Parlando dell’album, Saul dice: «Abbiamo davvero tentato di esplorare i limiti di cosa è di buon gusto. Prima che registrassimo il primo album, la gente ci faceva notare che usavamo molti stili differenti, il che non era intenzionale, ma allo stesso tempo mi piaceva molto l’idea. Io so che non stiamo cercando di spingere le cose oltre, so che non stiamo facendo nulla di innovativo. ma quello che riusciamo a fare bene, penso, è prendere vari pezzi quà e là – glam rock, punk, psichedelia, folk, country – e riuscire a metterli tutti insieme. Ho realizzato che possiamo suonare qualsiasi tipo di musica; non siamo bloccati in un singolo genere. Questa è la mia cosa preferita della band».
E forse anche la mia, oltre al fatto che sono pericolosi, irriverenti, scabrosamente onesti, e tra i gruppi più incredibilmente vitali nel Regno Unito.