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Erica Romeo - White Fever

Erica Romeo – White Fever

Dell’estate 2015 c’è chi ricorderà il sudore versato ai vari concerti rock che hanno animato la stagione.
Tra i tanti, io ricorderò anche un live più intimo ma intenso, quello di Xavier Rudd.
Australiano, fisico da surfista, capello biondo ed occhi verdi che incantano: a volte, ‘guardare’ oltre che ‘ascoltare’ non fa male – e in questo caso, fa davvero benissimo.
Sì, ma la musica? Quella di Rudd è una miscela di world music dai toni caldi e colorati.
«Ma non dovevi parlare di Erica Romeo?», direte voi.
Sì, e sebbene il sound della cantautrice biellese sia completamente differente un punto in comune con l’australiano c’è: la sua musica esterna ideali genuini e solidali.

White Fever” è il primo lavoro di Erica Romeo, che per raccontarci i sette capitoli che racchiude sceglie una chiave sonora di stampo folk con evidenti influenze angolofone.
A dire il vero, di chiavi, ne sceglie 4 folk e 2 elettroniche e questa è l’unica scelta infelice per quello che si presenta come un più che buono disco d’esordio.
I primi album sono sempre i più difficili e criticati: il banco di prova effettivo per capire se si è fatto un lavoro discreto (con del potenziale per il secondo lavoro) o un lavoro egregio (che andrà quindi a caricare d’aspettative le prossime uscite).
A voi piacciono gli azzardi?
A me sì, ma qui la sfrontatezza di Erica Romeo nell’inserire due tracce di elettronica in un disco con predominanza folk è fuori luogo e fuorviante: la presenza della bellissima ‘Intro‘ (traccia futuristica, incalzante nelle ritmiche che strizzano l’occhio a certe sonorità tipiche degli anni ’80) nulla ha a che vedere, purtroppo, con tutto il resto di “White Fever” – l’album, non la traccia.
La traccia, la title track, funge invece da Porta Alchemica: un confine necessario da oltrepassare per entrare nel paesaggio sonoro magico e irreale dipinto a tinte tenui dalla voce morbida di Erica Romeo. Da qui in poi è tutto molto altisonante negli intenti, cadenzato nel sound, e folk – estremamente, tremendamente, folk.
Ora, io contro il folk non ho assolutamente nulla – soprattutto se è un folk fatto bene con tutti i crismi del caso – ma dopo aver sentito ‘Intro‘ resto inevitabilmente legata a quel suono e mi chiedo: perché non concentrare le sonorità del disco in quella direzione? La risposta non la so, e andando avanti ascoltando la preziosa ‘Secret‘ e la rotonda ‘Graduated Shadings‘, mi convinco che effettivamente Erica Romeo può fare un po’ come le pare: che si tratti di elettronica o di folk, le riescono a meraviglia entrambe le cose.
L’importante, ecco, era non incrociarle all’interno di “White Fever“.

Se ancora vi steste chiedendo come mai ho menzionato Xavier Rudd all’inizio di questo articolo, la risposta è molto semplice: l’artwork di copertina, il titolo del disco e, di conseguenza, il brano omonimo (nonché il più meritevole dell’Ep) parlano dell’uomo bianco e di come esso sia stato capace di distruggere più culture, una fra tutte quella dei Pellerossa.
Rudd difende i diritti degli aborigeni, Erica Romeo racconta dei Nativi americani: due modi uguali, con suoni diversi, per difendere culture.
Attraverso la musica.

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