Edoardo Chiesa – Le nuvole si spostano comunque
Parafrasando una frase poi divenuta una sorta di tormentone televisivo, la domanda sorge spontanea: chi è veramente Edoardo Chiesa, o meglio, quale immagine di sé vuole sottolineare maggiormente e quindi proporre al pubblico?
È il cantautore dalle venature blues-rock che si è presentato nell’album d’esordio, datato 2015, oppure il cantautore dalle intenzioni pop che presenta il suo nuovo lavoro, Le nuvole si spostano comunque?
Quesito interessante, e che forse in futuro avrà una risposta, ma che al momento rimane sospeso a mezz’aria, tante sono le differenze fra questi due lavori che distano peraltro solo un paio d’anni l’uno dall’altro.
Non si può neppure dire che il secondo lavoro sia un’evoluzione, o uno sviluppo, del primo, anche perché in realtà potrebbe esserne, al massimo, un lontano cugino.
La strumentazione rimane, quella si, essenziale e minimale, ovvero chitarra/basso/batteria a supportare la voce, ma i timbri si addolciscono, l’imprinting acustico diventa prevalente e si allontanano le asperità e gli spigoli del blues; l’impressione è che il desiderio del cantautore savonese sia stato proprio quello di mettere da parte l’emotività più sanguigna per farne emergere, invece, una più mediata, più “pensosa”, quasi a voler favorire una sorta di dialogo con l’ascoltatore, dialogo che prenda il posto di un monologo più istintivo ma, necessariamente, unilaterale.
Ci sono molti modi di raccontare, ed ogni cantautore tendenzialmente ne fa proprio uno: chi si affida a figure retoriche più o meno spinte, chi invece preferisce narrare la cruda realtà in modo diretto.
Chiesa tutto sommato si pone quasi nei panni di un osservatore che, oltre a guardare intorno a sé, ogni tanto “sbircia” sé stesso e pone in relazione i due punti di osservazione.
Una sorta di equilibrista, insomma, che cammina sopra, in mezzo, sotto alla realtà, cercando di fissare lo sguardo con occhiate improvvise e rapide su brevi momenti, su dettagli che magari ai più sfuggono, o non paiono rilevanti; in questo senso ‘Le porte‘ è un brano che può dare l’idea di questo tipo di approccio visivo che si tramuta in storia e, di conseguenza, in riflessione.
Si parte, dunque, dal dettaglio, anche quello apparentemente insignificante, per poi aprirsi ad una visione sicuramente più ampia ma, sempre e comunque, ben delimitata, che allargare troppo lo sguardo rischia di compromettere la possibilità di cogliere altri dettagli, magari nascosti, oppure anche visibilissimi, talmente visibili da passare paradossalmente inosservati.
Racconti semplici, diretti, ma ricchi dunque di particolari, ed oltretutto espressi con un linguaggio che, rifuggendo la banalità delle frasi fatte, cerca di utilizzare un lessico decisamente più ampio, a tratti quasi ricercato, che permette all’autore di strutturare frasi che hanno spessore, profondità e che inducono ad una riflessione sul significato di quanto viene detto.
Un cantautorato “adulto”, dunque, lontano dalla scrittura convenzionale e stereotipata che, ahimè, affligge da (più di) qualche anno tanti autori, anche molto considerati e richiesti, capaci si di scalfire la superficie delle cose, ma del tutto disinteressati a, come si suol dire, andare oltre ed approfondire. Il velato richiamo musicale a Francesco De Gregori, che si percepisce distintamente in ‘Radici‘, è solo la conferma che le “radici”, appunto, come poi viene ampiamente descritto nel testo, sono ben salde in una tradizione che, carsicamente, appare e scompare periodicamente, ma lascia ovunque tracce indelebili.