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Darwin Deez - Double Down

Darwin Deez – Double Down


Una volta, parlando di sé, Darwin Smith, frontman dei Darwin Deez, disse: «Sono di razza mista. Mia mamma è bianca e mio padre è un mezzo nero, come Obama».
Cosa c’entra questo in una recensione su “Double Down”, ultimo album del quartetto newyorkese?
L’essere figlio di culture differenti costutisce la ricchezza sulla quale incentrare la tua vita, e credo sia proprio questa una delle chiavi di lettura non solo di “Double Down” ma, in generale, della musica di Darwin Smith, ragazzo smilzo che assomma in sé le movenze di Michael Jackson e il physique du rôle di un hippie.

Una musica che, a sua volta, è frutto delle esperienze e delle ispirazioni più disparate: dai Discorsi di Meher Baba («mio guru e guida spirituale»), alla lettura di Nietzsche, fino a giungere all’ascolto di André 3000 (membro degli OutKast) e dei Dismemberment Plan.
Qualcuno potrebbe storcere il naso dinanzi a questo calderone, e a buon diritto: spesso, nella musica (ma non solo) si tenta di malcelare, dietro un eclettismo stucchevole, una pochezza disarmante – ed è un rischio tangibile nell’indie (c’è forse bisogno di evocare la scena nostrana?).
Io non credo che “Double Down” si sottragga totalmente a questa consuetudine, purtroppo.
Al contempo, però, i Darwin Deez sono riusciti nell’intento di convogliare un insieme di fattori variegati in una leggerezza sonora che rimanda agli Ex-Otago di “Mezze Stagioni”: chitarre appena effettate, come nell’intro di ‘Time Machine’, spruzzi di synth qua e là, come in ‘Lover’, evocano scenari estivi, secchielli di mojito e spiagge che si perdono a vista d’occhio.
È possibile forse intravedere una vena intimista quando, in ‘The Mess She Made’, Darwin Smith canta:“And the more I drink with you,/ The more I see the mess she made”?
Si parla forse dei ricordi dolorosi di una storia finita male oppure del rimpianto di un ennesimo flirt nato e destinato a perire con il termine di agosto?
Il tono è quello profondo di un John Grant o è quello scanzonato dei The Drums in ‘Best Friend’?
O ancora, in ‘Lover’ – “Do you want to be my lover or not? […] And now I see that I’m yours/ But you’re not quite mine” – ci troviamo davanti ad un appello accorato o ad un tentativo (piuttosto maldestro, aggiungerei io) di rimorchio estivo?
Non ci è dato saperlo: se un album è leggero è perché riesce a mantenersi in equilibrio sul filo fra il serio e il faceto senza cadere né da una parte, né dall’altra.

A patto di dismettere qualsiasi intento educativo, se, come Darwin Smith ebbe a dire riguardo il precedente album, “Song For Imaginative People”, «[…] tutte le canzoni sono per gente ricca d’immaginazione, tutta la musica è musica per gente sensibile», allora, io credo, si è sulla buona strada per ritenere “Double Down” non una pietra miliare dell’indie-pop, ma certamente un buon divertissement.

 

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