BADBADNOTGOOD – IV
Malemale, non bene, se non benissimo.
“IV”, semplicemente, come l’Enrico re, titolo nobiliare che si addice ad una produzione che imbalsama l’antico regime del “genere” fissando l’ecletticità e la spensieratezza come due limiti oltre i quali non (tra)scendere per non veder sfumare il sorriso ingenuo all’avvezza felicità di maniera.
Immaginate un lungo vestito, intessuto di suoni accennati, tenuti nascosti, accuditi e poi lasciati liberi di sprigionare effetto immediato di dopamina da luna park mentale, cuore sudato che gronda elettricità e spolverate di fascinazioni desertiche ammalianti: questo è il lavoro dei BADBADNOTGOOD.
‘And that, too‘ è un UFO cittadino che riveste lo spaventapasseri dopo il rapporto carnale, un chewing gum propiziatorio ad un palloncino-mongolfiera, un’ancora che non vuole restare ancorata al passato e si libra verso l’oceano in sussulto dei cieli, intenti ad innalzare l’orizzonte per confondere le acque all’uomo venuto con la valigettacquario.
‘Speaking Gently‘ mi ha condotto con fare subdolo, come fossi un marinaio abbandonato dalla sua pipa, su di una strada che non smetteva di rotolare, si accartocciava, dribblava gli alberi, poi si alzava divorandosi il paesaggio, un treno a forma di tunnel, una cospirazione di trappole sonore gettate dagli slanci edonistici delle chiome degli alberi, impeccabili professionisti del presenzialismo tout-court.
‘Time moves slow‘ (feat. Sam Herring dei Future Islands) è un manifesto della lentezza che mi riporta ad una scena che è quasi mitologia moderna: quattro sedie attorno ad un tavolo attendono che il caffè esca dalla macchinetta, si osservano, discutono, si distendono, gustandosi l’ora di libertà dal peso umano, ma nessuna ha il coraggio di alzarsi per accendere veramente la moca, ponendo fine a quell’attesa infinita, glorificatrice, esauriente in ogni particolare.
A differenza nostra, il tempo si muove lentamente, siamo noi a mettergli fretta, correndo a testa bassa. ‘Confessions pt II‘ è un lungo solipsismo che rimanda all’autoerotismo di Molly Bloom incagliata nello scheletro diabolico del suo letto post-matrimoniale.
‘Lavender‘ (feat. Kaytranada), un divertissement per ragazzi in bilico sulle orme instabili della disadattata follia mattutina, quando gli occhi sono sgranati e colmi di invidiabile certezza sibillina, è un simil cortometraggio sullo sbarco di un ubriaco nel suo salotto natio, con annesse osservazioni dettagliate sulle rotazioni gravitazionali delle tende e il settimo senso nel percepire in anticipo lo spostamento dei mobili, un miscuglio di solleticazioni cupe e ridacchianti che fanno dimagrire il senso di paura.
‘Chompy’s Paradise‘ volge in un attimo dall’intro spietatamente Barrettiano alle algide pose di una soap opera spagnola, dove i protagonisti piangono con i sottotitoli.
Qui barche a vela abbronzate si scambiano consigli marittimi, divani si adagiano su altri divani, pipe si accendono da sole per assaporarsi in santa pace, uccelli scrivono le ultime lettere alle nuvole in pieno volo eufemistico e tutto il panorama si scioglie come le labbra dell’amante quando le prometti un assegno di baci scoperti.
‘Structure No 3‘ è un finale anticipato, ha fretta di concludersi si precipita corrompe il tempo ma poi è giudiziosa, si appoggia sulle foglie, tentenna molle, si dissocia da se stessa.
‘In Your Eyes‘ (feat. Charlotte Day Wilson) è la degna conclusione, tutta la matassa si sbroglia nel pozzo degli occhi, l’attesa è una febbre stimolante, ritmo elegante da passeggiata sul cornicione di un finto palazzo che finge di far finta di crollare, una fuga da tutte le ombre che appassiscono la nostra celebrità interiore: è negli occhi lo spartito di libertà immacolata.
Charlotte allaccia le scarpe al gruppo e pone il punto definitivo di quest’album, un ascensore frenetico che sballotta l’ascoltatore sui diversi piani dell’ascolto e del sentire (questione di feeling).