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The Temper Trap

The Temper Trap: la rivincita della semplicità

Ci hanno messo poco meno di tre anni, ma è valso la pena aspettare tanto per l’ultimo lavoro discografico della band di Melbourne.
“Thick As Thieves”, pubblicato alla fine della prima decade di giugno 2016, è la perfetta prosecuzione di quel percorso che Dougy Mandagi e compagni hanno intrapreso con l’acclamato “Conditions” ormai sette anni fa.
C’è tanto del sound di “Sweet Disposition”, che ha catapultato la band sulla scena internazionale guadagnando un meritato successo di critica e pubblico, ma c’è anche molto altro: storie intense, una produzione di tutto rispetto, la fatica di inaugurare una stagione creativa senza uno dei membri fondatori della band.
“Thick As Thieves” è una fotografia di ciò che i The Temper Trap sono diventati in più di dieci anni di attività insieme.
Abbiamo avuto l’occasione di parlarne con Toby Dundas, batterista della band, in una conversazione approfondita su spirito della band, making of di “Thick As Thieves” e live shows.

The Temper Trap - Thick As Thieves

Cominciamo dall’aspetto più superficiale dell’album – e “superficiale” perché anche visuale: titolo e copertina. Significati, backstory e motivi della scelta: cosa puoi dirci in merito?

Dougy (Mandagi, voce della band, ndr) ha scritto una canzone con quel titolo, e sembrava calzare perfettamente anche come nome dell’album.
“Thick as Thieves”, come espressione, trascina con sé parecchi elementi che riguardano il making dell’album: tra queste, sicuramente c’è ad esempio perdere per strada un membro della band. Ciò ha fatto in modo, se vogliamo, che i rimasti trovassero la via per restare uniti e legarsi ancora di più tra loro.
Per quanto riguarda la copertina, invece, è una foto che Jony (Aherne, bassista, ndr) ha scattato tre anni fa a Londra ad alcuni ragazzini per strada.
Quindi siamo andati a bussare a varie porte della zona in cui abitavamo, spiegando il perché delle nostre domande e tentando di trovare i genitori dei bambini per poter usare la foto come copertina dell’album.
L’indizio di Jony era un semplice “credo fosse una porta rossa”. E da lì a chiedere a persone a caso «hey, ti ricordi tre anni fa…» il passo è stato molto breve, ma la ricerca sicuramente non meno impegnativa.

Mi pare che “Thick as Thieves” raccolga un testimone lasciato da “Conditions” più che da “The Temper Trap”.
Qual è, se c’è, il filo logico che lega i tre album della band?
Cosa “Thick as Thieves” dice della band?
Quali sono gli elementi di innovazione (se ce ne sono) rispetto a “Conditions” e “The Temper Trap”?

“The Temper Trap” in qualche modo si distacca da “Conditions”, quasi sotto ogni aspetto, anche per quanto riguarda il modo di cantare di Dougy.
Con “Thick as Thieves” abbiamo recuperato qualcosa del primo album: più chitarre, più ritmo, testi con uno spirito più positivo. Ci abbiamo messo un po’ a far vedere la luce a questo album anche per via di alcune influenze positive che si sono inserite nel processo creativo.
“Thick as Thieves”, in ogni caso, attinge da entrambi i nostri precedenti lavori discografici. Molto importante è stato anche l’apporto di Malay, produttore di Channel Orange, e di Frank Ocean, che ci ha messo del suo orientando positivamente tutta la band su un certo tipo di sound in alcuni passaggi del disco. Damian Taylor, poi, è stato bravissimo a riuscire a catturare in studio quell’energia che tipicamente viene sprigionata da una band durante un concerto. Tutti questi fattori, insieme, coesistono in “Thick as Thieves” e hanno contribuito a renderlo quello che è oggi.

È un album fatto per essere suonato live?

Onestamente abbiamo pensato molto a questo, togliendo dall’album alcuni suoni semplicemente per il fatto che ci siamo trovati ad avere un membro in meno nel gruppo. Ci siamo focalizzati più tutto quello che avevamo a disposizione in quattro, perché la parte di competenza di ognuno di noi doveva quindi essere veramente buona.
Live questo album suona più crudo, naturale, sembra quasi portarci indietro nel tempo a quel che suonavamo agli inizi e in “Conditions”.

La canzone in “Thick as Thieves” a cui sei più legato, quella che ti ha divertito di più comporre e quella che preferisci suonare dal vivo (e perché).

La mia canzone preferita da suonare sul palco è ‘Alive‘, ha un’energia che riesce ad unire perfettamente band e pubblico, ed è qualcosa che riusciamo a percepire in modo fantastico. Quella che mi ha incuriosito di più in fase di composizione invece è probabilmente ‘Summer’s Almost Gone‘, per le innovazioni che Malay ha apportato al brano rispetto al “piano” originale.
Quella a cui sono più legato è sicuramente ‘Tombstone‘, per la storia molto profonda che si nasconde tra le parole del testo, qualcosa che Dougy è riuscito a sintetizzare benissimo: alla morte di un amico della sorella di Jony, la famiglia del ragazzo non aveva intenzione di dedicargli una lapide. La sorella di Jony quindi ha deciso di raccogliere dei soldi per donare una pietra tombale al tumulo del suo amico, nonostante la famiglia non avesse intenzione di fare questo gesto. A pensarci, ‘Tombstone‘ per un certo verso è un brano che avrebbe anche potuto far parte di “Conditions”.

Una band con cui ti piacerebbe dividere il palco in tour?

La mia band preferita sono i Radiohead, sarebbe fantastico avere una chance del genere. Però ho visto di recente i Massive Attack dal vivo e lo spettacolo è fenomenale, soprattutto per via di elementi extra come video, visuals e luci. Molto interessante, sarebbe bello suonare in un contesto di quel tipo.

Chi sono i tuoi batteristi di riferimento nello stile di esecuzione e composizione? Azzardo: c’è qualcosa di simile al Larry Mullen Jr. degli U2?

Larry Mullen Jr. è sicuramente tra le mie influenze, soprattutto per quanto riguarda il nostro secondo album, in cui addirittura suonavo alcune percussioni che ha utilizzato anche lui. Mi ha influenzato Mullen Jr. come anche il batterista degli Smashing Pumpkins, hanno entrambi dei ritmi molto interessanti.

Preferisci small venue o arena?

Duemila, tremila persone sarebbe il numero perfetto, come ad uno spettacolo in un grande teatro. Abbiamo suonato in posti più grandi e arene quando abbiamo aperto le date del tour dei Coldplay, e decisamente il modo in cui suoni come band cambia non poco. In uno stadio la componente scenica è fondamentale, invece in sale più piccole il rapporto tra band e pubblico è ovviamente più intimo. Ecco, è bellissimo riuscire a creare un legame di quel tipo ed è qualcosa che si dovrebbe provare a fare anche in uno stadio, sebbene sia sicuramente più complicato.

Anche se nel vostro album ci sono parecchi pezzi che palesemente si prestano molto ad essere cantati dalle folle in grandi stadi (So Much Sky)

Sì alcuni ritornelli e alcuni cori hanno quella componente che ti spinge a cantarli insieme alla band, qualcosa che ti prende facilmente, e allo stesso modo sono dei motivi semplici da ricordare. Non è qualcosa a cui abbiamo prestato particolare attenzione, si tratta più di un elemento che ha sempre caratterizzato i nostri brani e modo di fare musica.

Il kick-off del vostro tour sarà parecchio lontano da casa, quindi suonerete davanti a un pubblico non australiano ma che, ovviamente, data la fama internazionale della band, vi conosce già dai tempi di “Sweet Disposition”.
Ci sono delle differenze tra il pubblico europeo, americano e australiano? C’è una qualche pressione particolare nel presentare al resto del mondo un nuovo album, che già comunque riscuote un certo gradimento, a sette anni di distanza dal successo planetario di Conditions?

Non credo vi sia necessariamente una differenza tra il pubblico di diverse aree geografiche, ma da città a città qualcosa cambia di sicuro. Sydney ha un pubblico più entusiasta, quello di Melbourne è un po’ più riservato; stessa differenza rispettivamente tra Los Angeles e New York, o tra le coppie Spagna-Italia e Londra-Tokyo.
Adesso, arrivati a tre album, possiamo presentare una setlist che prenda per mano il pubblico e lo conduca attraverso tutti e tre i nostri lavori, da “Conditions” a “Thick As Thieves”. Possiamo anche aggiungere altre sezioni non presenti sui dischi ai brani che suoneremo, ad esempio estendendo alcune sezioni di “Sweet Disposition”. Una cosa è certa: faremo di tutto per coinvolgere il pubblico nel maggior modo possibile.

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