Andrea Esu, direttore artistico dello Spring Attitude Festival
Spring Attitude Festival: la musica alternativa si prende Roma
In Italia, uno dei paesi europei più conservatori in materia di cultura e ascolti musicali, i festival, indipendenti o meno che siano, sul modello delle grandi manifestazioni europee hanno da sempre vita difficile.
Alcuni chiudono i battenti dopo qualche anno (qualcuno anche di recente), altri vanno avanti tra le difficoltà grazie alla passione e alla determinazione degli organizzatori.
Ma a Roma, si tiene un festival che, anno dopo anno, sta assumendo sempre più la forma dei festival europei. Lo Spring Attitude Festival è uno spazio aperto alla musica al di là degli steccati di genere. Ma soprattutto un luogo in cui respiro libertà di essere, e quel mood di apertura, accoglienza e condivisione che normalmente ritrovo nelle principali manifestazioni europee. Ah, e dove la macchina organizzativa, che coinvolge 400 persone, funziona
Durante la notte della seconda giornata, mentre giro per l’area concerti, mi salta in testa l’idea di far quattro chiacchiere con Andrea Esu, direttore artistico del festival fin dai suoi esordi; e, grazie anche alla sua disponibilità, ci riesco
Andrea, saltando i due anni pandemici, è da poco terminata la tredicesima edizione dello Spring Attitude. Come è iniziato tutto?
Siamo partiti nel 2002, quando cominciammo a organizzare le serate del martedì all’Acab. Protagonista era la dance elettronica, ogni settimana invitavamo un ospite, che poteva essere sia un Dj che una band esponente del genere. Abbiamo ospitato i Metronomy quando ancora erano semisconosciuti, o anche i Two Door Cinema Club. Ci piaceva muoverci in un territorio alternativo. Poi nel 2009 pensammo di organizzare qualcosa di più grande: un evento allo Spazio Novecento con i 2Many Djs, che richiamò 1500 persone. Per noi erano numeri incredibili. Ci ispiravamo a Dissonanze, il festival che in quegli anni era di riferimento e che nel 2010 chiuse i battenti.
E poi?
Poi cominciammo a fare piccoli passi in avanti. L’anno successivo, sempre allo Spazio Novecento, i giorni divennero due e gli artisti cinque, da tre che erano. Da lì siamo cresciuti ogni anno e oggi portiamo avanti questa formula classica all’inglese
Cosa vuol dire fare un Festival all’inglese in Italia e a Roma?
Rispetto all’Inghilterra a Roma è più difficile farlo, la cultura musicale e quella di vivere i festival sono molto diverse. Anche se da alcuni anni anche da noi gli operatori culturali si sono allineati nel voler fare dei festival in Italia. Chi con più fatica, chi più agevolmente. Lo Spring Attitude rientra nella categoria dei “Boutique Festival”. Un piccolo festival, con un pubblico appassionato di musica che a grandi linee si può definire alternativa. Una manifestazione in cui lo spettatore ricerca attivamente un’esperienza in cui le “vibes” sono positive e possa riconoscersi in un ambiente familiare per tipologia di pubblico, di artisti, e per il modo di viversi l’esperienza.
Quando iniziate a pensare all’edizione successiva?
Subito, non si smette mai. La macchina organizzativa è già partita. Sono stati venduti i primi trecento abbonamenti “Early Bird” (abbonamenti ai festival messi in vendita a prezzi ribassati prima che si conosca il cartellone dei concerti n.d.r.) e io sto lavorando alla prossima lineup. Fare una cosa del genere a Roma vuol dire assumersi molti rischi imprenditoriali, ma per noi è una missione mettere in piedi una manifestazione che sia al passo e a livello dei grandi festival europei.
Una decina di anni fa facevate 7000 persone in due giorni. Negli ultimi anni avete viaggiato a medie di 20.000, in qualche caso anche più. Che rapporto avete con le istituzioni? Come hanno risposto il Comune di Roma e tutti gli altri enti coinvolti a un festival che anno dopo anno è andato via via ingrandendosi?
negli anni, insieme al festival sono cambiate le giunte, i governi, i referenti. Dieci anni fa eravamo sfiduciati e con le istituzioni proprio non parlavamo. Questo accadeva un po’ perché non erano interessate a ciò che facevamo e un po’ perché noi eravamo più focalizzati sul singolo evento.
Poi ci siamo accorti che, al di là dell’evento, noi facevamo “impresa culturale”, perché proponevamo musica e artisti non scontati. Allora abbiamo iniziato a cercare una sponda “istituzionale” trovando interlocutori attenti e interessati. Oggi quel rapporto lo abbiamo costruito ed è positivo.
Come si concretizza il rapporto?
Ad esempio, pur non avendo mai vinto il bando dell’Estate Romana, abbiamo stretto un accordo con il Comune di Roma che ci regala degli spazi pubblicitari importanti e riconosce un valore al festival. Poi abbiamo vinto il Fus, il Fondo Unico per lo Spettacolo, bando nazionale del Ministero della Cultura; e anche un bando della SIAE. Siamo sempre alla ricerca di finanziamenti, senza i quali lo Spring Attitude non starebbe in piedi. I costi lievitano, l’affluenza, sebbene alta, si è stabilizzata ed essendo un festival abbastanza di nicchia non può comunque contare sui grandi numeri del mainstream.
Ma posso dire che oggi le istituzioni ci sostengono, economicamente e non solo. Penso ad esempio alle proroghe orarie, all’ok per l’occupazione di suolo pubblico, legata proprio alle difficoltà logistiche. Basti pensare che per organizzare l’arrivo di 10.000 persone al giorno a Cinecittà dobbiamo chiudere al pubblico un tratto di Tuscolana, la complanare all’altezza degli Studios. Ma abbiamo trovato interlocutori disponibili, appassionati e felici di aiutarci.
Oggi la musica si ascolta prevalentemente sulle piattaforme, il grande pubblico non compra più dischi ma ascolta playlist, spesso “decise” dall’algoritmo sulla base degli ascolti precedenti. Risultato: la creazione di “bolle musicali” cristallizzate spesso intorno a un solo genere. Lo Spring Attitude si è mosso in direzione opposta: nasce come festival elettronico, poi allarga il ventaglio delle proposte artistiche. La concezione è quella del festival come spazio di incontro e confronto tra diversità di generi e pubblico. Vai per ascoltare un paio di band, e scopri che possono piacerti generi che fino ad allora avevi lasciato ai margini delle tue scelte. Poteva essere un rischio ma invece si sta rivelando vincente.
A dirti la verità non ho mai pensato in termini di rischio. Ci sono festival che ho sempre frequentato che hanno una simile impostazione. Penso al Primavera Sound ma anche al Sonar,incentrato prevalentemente sull’elettronica, ma in cui puoi trovarci i Pet Shop Boys, gli Human League e i New Order.
Poi il periodo della mia adolescenza è stato quello dell’indebolimento delle barriere tra chi andava in discoteca, chi ascoltava l’elettronica e chi invece era appassionato di indie e alternative rock. Dischi come “Screamadelica” dei Primal Scream, hanno tracciato un solco e aperto le porte a un’epoca. Poi penso alla scena di Manchester a cavallo tra gli ’80 e i ’90, con band come gli Stone Roses e l’esplosione della scena rave, dell’Acid House, i Chemical Brothers e tutti i gruppi indie inglesi
Le divisioni tra chi andava a ballare al Cocoricò e chi ascoltava i Nirvana le ho sperimentate solo per un breve periodo. Avevo voglia di affiancare accanto ai nomi dell’elettronica quello che mi piaceva e ascoltavo da ventenne: le band di alternative rock. Ma all’inizio è stato complicato perché, a differenza del DJ o del singolo artista che ti fa il live elettronico, i gruppi hanno costi maggiori; tante persone da far viaggiare, da far mangiare, da far dormire.
Quando è arrivata la svolta?
Le cose sono cambiate quando abbiamo trovato uno spazio con grandi capienze che ci permetteva di aumentare gli investimenti e quando, intorno ai primi anni ’10, sono esplose le prime band indie italiane. Quando queste sono passate dai 100 persone dei piccoli club, alle migliaia dei Palasport, c’è stata la definitiva rivoluzione.
Poi il mio gusto musicale prende forma in quel mondo sonoro dell’alternative rock. Solo in un secondo momento mi sono appassionato alla musica elettronica e ho iniziato a fare il DJ di house, disco e techno. Il mix tra questi due mondi è anche dipeso dalla nuova location, che non ci permette di fare due palchi separati che lavorano contemporaneamente. Cosa accaduta fino al primo anno in cui siamo andati a Cinecittà, dove avevamo spazio dentro uno dei teatri. Lì dentro avevo messo la parte dance/elettronica, e fuori la parte più alternative e indie rock. Lo spettatore doveva scegliere dove andare
Quando Cinecittà ci ha tolto la disponibilità del teatro abbiamo trovato l’attuale soluzione. Due palchi affiancati, che lavorano alternativamente per un’ora/un’ora e mezza a turno; ed è diventata la nuova formula. Apriamo intorno alle 16 e fino alle 22/22.30 ci sono le band alternative rock, indie, i cantautori, magari anche con qualche richiamo all’elettronica. Che invece si prende tutto il suo spazio e, insieme ai dj set, diventa il piatto forte nelle ore a seguire, fino a notte inoltrata.
A me piace l’idea dei palchi affiancati. In primis perché è bello mischiarsi; poi perché ti trovi lì, hai appena finito di ascoltare una delle tue band preferite e nel palco accanto inizia il live di una band che non saresti mai andato a sentire e scopri che ti piace un botto. Il fatto che una cosa del genere remi nella direzione opposta rispetto a quella dell’algoritmo, e di una società organizzata per compartimenti stagni intorno alle proprie bolle, mi pare cosa molto buona e molto giusta. Può essere anche una scelta che allarghi gli orizzonti di ascolto del pubblico. I numeri del vostro festival mostrano che potrebbe trattarsi di una scelta vincente. Una cosa insolita per un pubblico piuttosto conservatore come quello italiano. Ci siamo un po’ inglesizzando, oppure sono troppo ottimista?
Eh, magari. Per l’attenzione alla musica e per le modalità di fruizione, l’Inghilterra è sempre un passo avanti, forse anche due. La stessa BBC, la radio di stato, ha dei canali dedicati alle musiche alternative. Il sistema dei media, dei discografici, da sempre è attento alle nuove tendenze e investe anche su progetti di un certo tipo. Quella che qui raccontiamo come eccezionalità, la è la normalità quotidiana. I festival fanno parte della loro cultura e la musica è una componente fondamentale della vita delle persone. La televisione può far passare in prima serata speciali sulla musica o su qualche band. In Italia ci sono gli appassionati di musica, che riconoscono in un festival come Spring Attitude un’esperienza gratificante perché hanno avuto modo di viverne di simili all’estero. Ma è ancora una piccola percentuale sul totale di chi ascolta musica; fosse maggiore sarebbe molto più facile per noi.
In questi quindici anni, qual è stata la difficoltà più grande?
Quella di dover, per necessità di cose, programmare lo Spring Attitude con grande anticipo, in una situazione di precarietà logistica quando ancora non avevamo la conferma dello spazio in cui si sarebbe tenuto. Siamo partiti dallo Spazio 900 all’Eur, poi ci siamo trasferiti al quartiere Flaminio, prima nello spazio dell’ex caserma di via Guido Reni, successivamente al MAXXI, che ha una grande capienza esterna, ma limitata all’interno e ci imponeva di terminare le serate allo scoccare della mezzanotte. Ogni volta passavamo in rassegna tutti i posti possibili in città, ciascuno con i suoi pro e i suoi contro.
A proposito, sono confermati gli Studios di Cinecittà anche per il prossimo anno?
Stiamo ancora valutando alcune situazioni. Non posso dirti nulla ora, ma potrebbero esserci delle sorprese (Così è stato. Pochi giorni dopo questa intervista si è avuta la conferma ufficiale che l’edizione 2025 dello Spring Attitude si terrà all’Eur, all’interno della Nuvola di Fuksas n.d.r.)
E invece la più bella gratificazione?
Quando ti dicono che il festival è figo, piace, è divertente ed è una situazione in cui la gente sta bene. O quando sento abituali frequentatrici di festival all’estero dire che non sono mai stati bene allo Spring come quest’anno. Questo mi ripaga di tutte le energie investite.
Quest’anno anche le facilities sono state eccellenti. Dodici food truck e sei punti bar hanno reso brevissime le attese per il cibo e le bevande, nessuna coda per i bagni che erano ben centocinquanta. Penso che siano aspetti parimenti importanti, perché il festival può essere strepitoso quanto vuoi, ma se passi un’ora e mezza tra code per il cibo e per i bagni l’esperienza diventa assai meno piacevole.
Sì, cerchiamo di far sì che vada tutto al meglio anche in questo senso. Implementiamo i servizi accessori sempre sulla base di una stima del numero delle persone atttese. Poi l’affluenza può essere leggermente superiore o inferiore alle aspettative e magari un minimo si può ripercuotere sui servizi accessori. Lo scorso anno, ad esempio, abbiamo avuto dei problemi non direttamente dipendenti dall’organizzazione del festival, ma dal crash dell’app utilizzata per i pagamenti cashless; e questo blocco ha provocato code alle casse per caricare i braccialetti. Quest’anno ne abbiamo utilizzata un’altra che ha funzionato alla perfezione ed è andato tutto liscio.
Siete partiti nel 2010 e si può dire che oggi avete vinto le vostre sfide. Qual è il sogno per lo Spring Attitude del futuro?
Il mio sogno è innanzi tutto che il Festival diventi sostenibile e che si affermi come un appuntamento fisso al quale le persone decidano di partecipare a prescindere dalle band previste in cartellone, perché certe che sarà un’esperienza appagante e gratificante. Prendi Glastonbury; sai già che ci andrai quest’anno, il prossimo e anche quello dopo ancora. Perché è una situazione meravigliosa, perché sai già che ti piacerà. Una piccola parte di pubblico così già la abbiamo. I primi 300 biglietti per l’edizione del 2025 li abbiamo già venduti una settimana dopo la fine dell’edizione 2024. Il sogno è che il numero degli Early Bird venduti aumenti sempre di più.
Ultima domanda, voglio una risposta secca. Qual è la band che, se avessi la bacchetta magica, vorresti portare sul suo palco?
Sicuramente qualche mio mito con il quale sono cresciuto e che ancora gira in tour. E non ho dubbi sui nomi: i Pixies e i Pavement.
Sul nome Pixies ho un mancamento ma per fortuna siamo arrivati alla fine. Prima di perdere i sensi faccio appena in tempo a salutare Andrea e a dargli appuntamento per l’edizione 2025 dello Spring Attitude.
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