Savana Funk, lo sguardo rivolto a sud
Questa intervista ai Savana Funk è stata realizzata lo scorso novembre, nel mezzo del tour invernale della band per la presentazione del nuovo disco, “Ghibli”.
Se ti sei perso il racconto del concerto a Roma, leggi il nostro live report.
Le colline a nord di Treviso sono la patria del prosecco, e già si parte bene.
Prendi poi un chitarrista cresciuto a blues fin dai tempi del biberon, portalo a Bologna e fallo incontrare con un bassista italo-ghanese, nato a Londra dalle esperienze musicali che spaziano dalla classica, al jazz, all’hip-hop, all’afro.
Dopodiché fa’ loro imboccare la A14 Adriatica, destinazione Imola, a casa di un batterista con i ritmi del Sahara nel Dna.
Shakera bene e otterrai i Savana Funk: Aldo Betto chitarra, Blake Franchetto basso e Youssef Ait Bouazza batteria, sono una consolidata realtà della world music.
Cinque lavori realizzati dal 2015 a oggi, gli ultimi due usciti per l’etichetta Garrincha Dischi e un’attività live senza sosta, con centinaia di date in Italia e all’estero, un crescente successo di critica e pubblico che travalica gli steccati di genere.
Li incontro al termine del soundcheck della data romana del loro tour di presentazione di “Ghibli”, la loro ultima fatica.
Dopo la promessa, incredibilmente mantenuta, che li “libererò” per la cena entro venti minuti ci sediamo sui divani del backstage del Monk.
Con loro l’inseparabile Pippo, colui che dietro al mixer forgia i loro suoni e presenza imprescindibile durante i loro tour.
Ho immediata conferma della loro affabilità e simpatia, il tempo di familiarizzare con il nuovo look di Blake e cominciano a raccontarmi della loro musica.
Partiamo dal vostro ultimo lavoro, “Ghibli”.
Qual è stata la genesi del disco e che differenze ci sono rispetto al precedente “Tindouf”?
[Aldo] Guarda, se consideriamo l’approccio alla registrazione è stato il medesimo di “Tindouf”. Stessa filosofia, stesso studio, registrato tutto live in presa diretta, come in sala prove. Non avevamo nemmeno le cuffie, è stato come se fossimo a suonare su un palco. Dopo l’esperienza di “Tindouf” abbiamo ancor più capito che lavorare in questo modo era una dimensione che ci piaceva esplorare e siamo contenti di aver lavorato così anche per “Ghibli”.
Forse abbiamo addirittura aggiustato ancora di più il tiro per quanto riguarda la qualità della registrazione, e questo disco ha guadagnato qualche centimetro rispetto al precedente. Se invece facciamo ancora un passo indietro nel tempo e consideriamo l’aspetto compositivo, allora “Tindouf” è più un disco da quartetto, concepito per essere suonato con il nostro tastierista Nicola Peruch, mentre “Ghibli” è stato pensato e composto pensando al trio come formazione elettiva per portarlo in tour.
Anche perché Nicola era, ed è, spesso in giro a suonare e allora ci siamo “arrangiati” con quello che c’era.
Come hanno preso forma i pezzi?
[Aldo] Le composizioni nascono nel secondo inverno della pandemia, quel lungo periodo a cavallo tra 2020 e 2021, da novembre ad aprile in cui siamo stati molto a casa.
Di conseguenza abbiamo avuto molto tempo per trovarci in saletta. Non potendo fare niente altro, abbiamo suonato, composto e registrato tantissimo materiale.
Così tanto che abbiamo avuto l’opportunità di scartare diverse cose, e tenere solo quello che più ci piaceva. Alla fine, questa, secondo noi, è sempre la cosa migliore che possa accadere quando si lavora a un disco. E infatti, rispetto a “Tindouf”, “Ghibli” è un lavoro ancora più compatto.
C’è un concetto guida dall’inizio alla fine, un filo logico, un’idea comune potente che unisce tutti i brani.
Qual è questo filo logico?
[Youssef] Il filo logico è il Mediterraneo. Il Mediterraneo visto da questo nostro lato in Europa, guardando verso sud.
Il Ghibli è un vento che soffia dall’Africa verso il Mar Mediterraneo e quindi, già nella direzione Africa-Europa, è racchiuso il senso della nostra musica.
In questo dialogo tra Europa e Africa, nel Mediterraneo riconosciamo il nostro suono. A noi piace scrivere pensando al mediterraneo.
Simbolicamente poi il Ghibli è un vento che ripulisce l’aria, e ci piace pensarlo come metafora di qualcosa che abbia portato via il periodo in cui siamo stati chiusi in casa, confrontandoci con le nostre difficoltà e affrontandole, chi più, chi meno.
Abbiamo immaginato che questo vento ci permettesse nuovamente di respirare l’aria pulita.
[Aldo] C’è anche da aggiungere che, nel Nord Africa, Ghibli è un termine generico utilizzato per indicare qualcosa o qualcuno che arriva da sud.
Può essere un vento, un costume, un popolo, una persona, una musica. E al sud del mondo, a tutto ciò che viene da lì, siamo particolarmente attenti.
Ben oltre il vento, il concetto di sud è un elemento importante e fondante per noi e per la nostra ispirazione.
Scendendo più nel dettaglio del disco, mi ha colpito la nitidezza e la personalità del vostro suono.
Una contaminazione ben assortita di afro, funky, blues, rock, psichedelia e, appunto, mediterraneità.
‘Agadir‘, ad esempio, ha un andamento quasi Flamenco andaluso, mentre in ‘Lipari‘ ho sentito atmosfere e sonorità alla Ennio Morricone.
Al tempo stesso ho trovato potente la scelta dei titoli dei brani, singole parole a forte carica metaforica, evocativa e simbolica.
[Aldo] Intanto ti diciamo grazie, perché essere accostati al Maestro per noi è un onore e ci emoziona. Se posso dire cos’è quello che tu hai colto con molta attenzione è la nostra ricerca melodica. Noi cerchiamo di fare in modo che i nostri brani abbiano un grande respiro melodico, proprio perché siamo un gruppo strumentale e i due capisaldi sono da una parte il groove da una parte e necessariamente la melodia dall’altra. E sono d’accordo con te, ‘Lipari‘ mi richiama quel mondo lì.
Lo stesso discorso va fatto per ‘Il Ghepardo‘, inserita in “Tindouf”.
È collocato in tutt’altro contesto, ma la chiave compositiva e l’ispirazione arrivano dalla cura che noi mettiamo nella melodia.
C’è poi da dire che molti pezzi sono riconoscimenti alle nostre sorgenti di ispirazione, che siano luoghi, figure mitologiche, persone in carne e ossa. Ad esempio, ‘Boubacar‘ è il nostro omaggio a Boubacar Traoré, uno degli esponenti principali della musica maliana, probabilmente il più importante.
[Blake] Così come ‘Ghanaba‘ è il nostro ringraziamento a un altro eroe della musica ghanese, batterista, uno dei dei primi a fondere esplicitamente la musica africana, con il jazz e la musica occidentale d’oltreoceano. Per noi è il simbolo dell’Africa che negli anni Cinquanta e Sessanta inizia a incontrarsi e mescolarsi con il mondo esterno.
[Aldo] Come vedi, omaggiare i nostri ispiratori è una cosa che facciamo spesso. In passato abbiamo intitolato un brano ‘Timbuktu Calling‘ (presente nell’Lp “Savana Funk”, 2017 n.d.r), prendendo spunto da “Talking Timbuktu” disco di Ali Farka Touré, altro grande della musica maliana, e Ry Cooder.
[Youssef] Ritornando a “Ghibli”, in ‘Ayat‘ invece ascoltando attentamente, puoi cogliere una frase cantata. Sono delle parole che richiamano un frammento di ‘Aysha‘, la canzone di Cheb Khaled. ‘Ayat‘ è un pezzo che immaginiamo dedicato a una donna, a una madre e anche alla vita. Perché è sia un nome proprio femminile, sia la traduzione araba della parola vita. Insomma, ci piace ringraziare i nostri eroi, a volte prendiamo spunto in maniera più evidente, altre invece recuperiamo i concetti.
Proprio quella ora citata in ‘Ayat‘, mi sembra l’unica presenza di parole cantate.
Se c’è un’altra cosa che vi riconosco come merito, è esservi liberati dall’obbligatorietà della presenza del testo e al tempo stesso ricevere un costante e crescente anche da parte del pubblico che magari è più abituato alla forma canzone e che non ha immediatezza e familiarità con certe sonorità e linguaggi.
[Aldo] Sai, senza testo il messaggio diventa universale. Trascende la barriera linguistica, e a quel punto può andare oltre e diventare patrimonio di tutti. Personalmente sono un grande fan di De André, di Bob Dylan, dello stesso De Gregori.
Amo la musica accompagnata da grandi testi, ma noi siamo nati così, a oggi la nostra natura è quella di fare musica strumentale.
Chissà, un domani, tra uno, due o tre dischi, esploreremo la forma canzone, ma ora cerchiamo di esprimere e comunicare la nostra essenza, che è questa.
Cerchiamo di fondere tutte le forme musicali e i linguaggi musicali che ci piacevano, cercando di ricavare il nostro suono e ci sentiamo già espliciti così, diretti, senza la necessità di aggiungere altro.
A proposito di linguaggi universali: l’esperienza di ascolto della vostra musica è inscindibile dal ballo. È inevitabile ballare ai vostri concerti.
In un brano dei Sons of Kemeth c’è Joshua Idehen, che nel precedente concerto romano salì con voi sul palco, che conclude un suo spoken word dicendo «questa fiammata nera è danza, questo dolore nero è danza, queste preghiere nere sono danza, questa lotta nera è danza».
Quanto è importante per voi l’aspetto legato al movimento dei corpi e alla danza?
E in più, la danza può effettivamente diventare strumento politico di lotta e liberazione?
[Aldo] Guarda, la danza è una figata. È totale liberazione perché è consapevolezza del corpo movimento, ma è anche collettività.
Non si balla quasi mai da soli: si balla in gruppo, si balla in coppia, si balla con tante persone a un concerto, alle feste. È un qualcosa che da una parte può sembrare semplice e personale, ma dall’altra può addirittura acquisire valenza politica secondo me.
Inoltre, non ultimo, l’esperienza di qualcuno che sta facendo qualcosa un suono, un ritmo, una melodia con un flautino costruito con due buchi in un osso e qualcuno che si muove davanti a lui è nato letteralmente con l’essere umano, è come un linguaggio parlato, ce l’abbiamo dentro.
[Blake] Noi balliamo quando suoniamo, anche Youssef sul seggiolino dietro la batteria sta ballando. Ballare è un atto rivoluzionario e liberatorio e ci piace anche che la gente si metta a ballare insieme a noi. E quando siamo sul palco a suonare facciamo molta attenzione a questo. Guardo il pubblico e quando vedo le persone che si muovono, ballano, vuol dire che stiamo suonando bene.
E allora senti la tua vibrazione che arriva agli altri e viceversa. Entri in connessione ed è il senso del nostro stare lì.
Ma adesso voglio sentire la voce della verità e chiedo a te, Pippo, tu che sei il loro fedele e inseparabile tecnico del suono nei live e li segui ovunque o quasi.
Come è lavorare con loro? Ti fanno arrabbiare qualche volta?
[Pippo] Sono sincero, con loro si lavora benissimo.
I tre, nel frattempo, se la ridono di gusto.
[Pippo] Io mi siedo dietro al mixer e dal palco mi arriva già un suono eccellente, quindi non c’è quasi mai molto lavoro da fare per il tecnico del suono.
Infatti, a volte capita che io sia assente e loro mi dicono di non essersi trovati bene nel suonare in un dato posto, io mi preoccupo e penso: «ma che cosa è successo?».
La verità è che il loro suono è un marchio di fabbrica, perfetto in partenza. È una bella casa e meno cose si vanno a toccare, meglio è. E poi no, nessuno mi fa arrabbiare, e non lo dico perché sono qua, anche perché se qualcuno dimentica qualcosa, la prendiamo sempre a ridere.
Dalle risate collettive “intuisco” che, tra piccole distrazioni, recentemente qualcuno abbia dimenticato di prendere la testata di qualche amplificatore.
[Aldo] Abbiamo questo problema: tendiamo a dimenticarci strumenti e accessori, ma non solo.
Vabbè Pippo, te lo posso dire: stamattina sono andato a ritirare la macchina avendo dimenticato la patente.
Però la ragazza del noleggio non se ne è accorta, anche perché ho mandato avanti Blake per sicurezza ed evitare eventuali condanne.
A proposito di strumenti musicali.
Sembra che stiano ritornando di gran moda presso i giovanissimi strumenti più prettamente rock, come le chitarre, bassi e batterie, dopo quasi un ventennio in cui sembrava farla da padrone solo l’elettronica?
[Aldo] Noi pensiamo che ogni musica sia figlia del suo tempo, di una particolare stagione. Se abbiamo avuto un’ondata di musica più digitalizzata, penso semplicemente che era quello il momento giusto perché potesse accadere. Poi in fondo la musica è ciclica, fatta di corsi e ricorsi e stiamo aspettando i nuovi Nirvana.
Attenzione, non perché desideriamo il ritorno del grunge, ma concettualmente di qualcosa totalmente inaspettato che sparigli tutte le carte in tavola sul banco della musica. Ecco, oggi si parla dei Maneskin, con tutto il rispetto non sono loro a far saltare il banco e comunque li apprezzo, ma hanno avuto il grande merito di aver acceso i riflettori su cosa sta succedendo nel nostro paese e aver avvicinato alla musica tantissimi ragazzi, che altrimenti forse avrebbero fatto altro.
Poi attenzione, ci sono anche diversi rapper che nei loro live set prevedono la presenza di strumenti tradizionalmente rock.
Vai a vedere un concerto di Salmo e vedi un signor musicista come Jacopo Volpe che suona la batteria, puoi sentire le chitarre elettriche.
A Bologna sono molto amico di Mr Monkey, un produttore hip hop, i cui artisti salgono sul palco con strumenti che suonano.
Di solito la domanda a chiusura dell’intervista, e tanto “amata” dagli artisti, è relativa ai progetti futuri.
Avendo però fatto uscire un disco un mese fa, è quindi più che un futuro avete un presente bello denso.
[Aldo] Sì, adesso siamo in pieno tour e vi resteremo ancora per alcuni mesi.
Il calendario è in continuo divenire fino a febbraio.
Ci prenderemo una pausa, probabilmente in primavera e magari ne approfitteremo per scrivere qualcosa.
E poi per la prossima estate faremo i Festival. Abbiamo sono già alcune cose in programma molto belle e non vediamo l’ora che avvengano.
Ma intanto viviamoci l’oggi e godiamoci e godetevi questo tour invernale.