Prairie: oltre la profondità del suono
Con l’arrivo dell’autunno inizia ufficialmente il lento declino che ogni anno mi porta ad una pigrizia-da-ricerca: una sorta di letargo musicale, bruttissima malattia che solo pochi fortunati possono permettersi.
Ebbene sì, perché se a momenti mi sento vorace e cerco da sola nuovi dischi da ascoltare, a settembre qualcosa decide di trasformarsi, di “rilassarsi”, e per questa strana forma di inerzia mi affido ai consigli degli amici – e i miei, fortunatamente, hanno sempre cose sorprendenti da suggerirmi.
Quando ho ‘conosciuto’ Prairie , infatti, è andata esattamente così: ho chiesto aiuto ad un amico e la sua risposta è stata piuttosto secca, un laconico «Like a Pack Of Hounds».
Nessuna introduzione, nessuna indicazione sul genere: niente che potesse aiutarmi ad intuire qualcosa, come accade invece con i libri nella quarta di copertina.
Il primo ascolto, come volevasi dimostrare, è stato sicuramente ricco di difficoltà e di stupore: Prairie si occupa di musica evocativa.
E quando lo dico, intendo che siamo ben distanti da produzioni commerciali quali quelle dell’internazionale (ed inflazionata) Enya, per intenderci.
Lo scoglio davanti al quale mi sono trovata è stato l’impatto emotivo: ho dovuto fare i conti sin da subito con un opprimente senso di angoscia (‘End Of‘), anche se è bastato il replay in loop dell’intero album per restare catturata dal magnetismo che ci cela tra le note di “Like a Pack Of Hounds”, indubbiamente uno dei più interessanti lavori europei di questo 2015.
Un’altra sorpresa riguardo Prairie è arrivata durante il tour italiano di Apparat, quando in apertura allo spettacolo “Soundtracks Live” (live report e photogallery) si sono esibiti proprio loro: con una serie di visuals dal sapore asettico ma catalizzante, il trio sul palco ha ben retto l’attesa del più noto collega tedesco.
Potevo dunque persistere nella mia pigrizia-da-ricerca?
Prairie, ecco l’intervista con Marc Jacobs.
Il progetta ruota attorno a te, Marc, ma quando abbiamo assistito al live a Roma sul palco eri in compagnia di altri due musicisti: Prairie è un progetto solista o possiamo considerarvi a tutti gli effetti una band?
La registrazione della musica e dell’album sono decisamente un progetto solista: tutto è stato composto, suonato, editato e mixato da me.
Live, invece, diventa il progetto di una vera e propria band.
Reinterpretiamo i brani del disco in una maniera molto libera, siamo aperti all’improvvisazione all’interno di una certa struttura, utilizzando samples delle registrazione.
C’è un input da parte degli altri musicisti, ognuno con il proprio stile e abilità, ma io rimango il ‘direttore’.
Come nasce il progetto?
Suono da sempre, sin da quando ero un bambino, militando in diverse band come tanti fino a che non mi sono deciso ad iniziare a comporre da solo.
Parallelamente, ho suonato con un’amica, Lucille Calmel.
Lei è una performer ed insieme abbiamo iniziato ad improvvisare: io suonando la chitarrra e Lucille con la sua voce passata attraverso il microfono del computer ed alcune registrazioni urbane.
Abbiamo fatto un piccolo tour con quel progetto, che e’ poi diventato la base per il suono di Prairie.
Ancora oggi utilizzo samples della sua voce e di quelle registrazioni nella mia musica.
Da cosa prende spunto, il nome?
Se non sbaglio, tradotto in italiano è “prateria”.
Esattamente.
È un riferimento alle praterie americane, enormi estensioni di erba, regioni vaste e pressochè deserte ma con un sacco di organismi viventi che cambiano con le stagioni.
L’ultimo lavoro, “Like a Pack of Hounds”, è abbastanza diverso dai lavori precedenti.
Le sonorità sono quasi molto cinematografiche ed il suono è più profondo.
Ciò che non manca mai, come una costante, è la componente evocativa: da dove arriva l’ispirazione?
Forse il mio lavoro precedente era più grezzo e più spontaneo.
Credo di aver trovato un certo sound, che combina l’elettronica con cose più ‘chitarristiche’.
La mia principale ispirazione è la creazioni di suoni e lo studio di come essi interagiscono fra loro: impiego molto tempo a cercare quel suono, ma nel nuovo album volevo anche raccontare una storia.
Tutto è connesso, dai visuals ai titoli delle canzoni.
Una grande fonte di ispirazione sono stati anche il cinema e la fotografia, e le passseggiate in montagna…ma l’ispirazione fondamentale per “Like a pack of hounds” è stato il romanzo ‘Meridiano di Sangue‘, di Cormac McCarthy.
Ambientato nell’anarchico wild west di fine ‘800, racconta la storia di come sia nata una certa America, combinando estrema violenza e bellissime descrizioni della natura selvaggia.
Ma parla anche della dicotomia dell’uomo: allo stesso tempo animale e filosofo.
Questo è l’argomento che volevo evocare nella mia storia.
E il fatto di mescolare constrasti e contraddizioni musicali, che variano dal rumore alla fragilità, mi ha permesso di raccontarla.
Ti capita mai di provare sensazioni quali la paura, all’ascolto dei tuoi brani?
Mi piacciono le sensazioni estreme quindi sì, percepisco emozioni forti sia quando scrivo musica sia quando la riascolto durante il processo di scrittura.
Ma non sento paura.
Di fatto, non ascolto mai la mia musica.
La Minoan Lines è una compagnia di traghetti greca, e uno dei brani si chiama ‘On Minoan Lines‘: c’è qualche aneddoto particolare legato a questo brano?
Avevo sentito di un grosso incidente che coinvolgeva la compagnia, e avevo pensato che Minoan Lines fosse una bella combinazione di parole.
Quindi, ancora, la combinazione di un diastro con un certo tipo di estetica letteraria sembrava naturalmente connesso alle sensazioni che il brano evoca.
Cosa accade in ‘Looking back my sweet‘?
E’ un brano sulla dualità.
Potrebbe riguardare una tragedia avvenuta, o potrebbe essere una dichiarazione d’amore.
O entrambe.
Dal vivo, la canzone e’ tradotta visivamente attraverso immagini di un vulcano attivo: il vulcano può distruggere ogni cosa ma può anche generare nuova vita.
Rappresenta una connessione fra passato e futuro.
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