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Paolo Saporiti

Paolo Saporiti: parlando dei Todo Modo (ma non solo)

Paolo Saporiti ha alle spalle un lungo percorso solista che lo ha portato a sperimentare coi suoni della sua chitarra e a cimentarsi con testi in inglese ed in italiano.
Un cantautore con tutti i crismi, uno di quelli che non trovi facilmente sotto i riflettori perché la musica, a lui, piace crearla sapientemente e con una certa intimità.
Poco importa se questa stessa musica, a sua volta, raggiunge tante o poche persone: la notorietà non sembra essere qualcosa di ambito – la qualità nei suoi progetti, invece, è esplosiva e si fa notare da sé, senza grosse necessità.
Amico e collaboratore di Xabier Iriondo da diverso tempo, è assieme a lui e a Giorgio Prette che ha intrapreso un capitolo musicale a tre sotto il nome di Todo Modo: un progetto diverso ma al contempo con salde radici in quella che è la scrittura di Saporiti.
Gli abbiamo chiesto di parlarcene, e di raccontarci al contempo parte della sua storia.

Al di là del romanzo di Sciascia e del film di Petri, perché avete voluto chiamarvi Todo Modo? Che cosa rappresenta quest’espressione per voi, effettivamente?

Per Giorgio l’inizio, il primo gesto di un atto liberatorio; per Xabier una conferma.
Per me una svolta nelle intenzioni e nei fatti, artistico/interpretative.
Un’occasione ghiotta per tutti e tre, dunque, per manifestare un profondo dissenso: l’espressione, in questo caso, deriva da una necessità, quella di continuare a sperimentarsi e manifestare un pieno disaccordo con lo status quo.
Nel progetto è contenuto un punto di vista più spiccatamente sociale, in relazione al mio passato più intimista ma l’obiettivo è soltanto spostato, a voler bene osservare.
In me è sempre stato presente un certo quid di asperità e di voglia di cambiamento nel mondo.
Avevo voglia di condivisione e questa è stata l’opportunità migliore, creata da questo progetto.
Il trio mi ha spalancato le porte.

Todo Modo

L’idea di questo trio viene dunque da te?

No, l’idea di Todo Modo, del trio, viene da Giorgio.
La formazione, per quanto attiene i suoi singoli componenti, da Xabier, credo.
Io sono stato coinvolto in seconda battuta, a partire dal momento in cui, loro due, hanno capito che volevano continuare a lavorare assieme (dopo l’uscita di Prette dagli Afterhours, ndr.) e hanno inquadrato come riuscire a farlo.
Visti i precedenti e i loro due ruoli, consolidati nel tempo, hanno cercato uno scrittore e un interprete e son comparso io che collaboravo con Xabier da anni e che rispondevo esattamente a queste due necessità.

Viste le collaborazioni precedenti con Iriondo, quanto condividi con lui dal punto di vista dei gusti musicali?

Tutto e niente, allo stesso tempo, musicalmente parlando: abbiamo ascolti molto diversi.
Lui, di sicuro, più aperti dei miei. Io arrivo da un mondo di cantautori anglofoni, un mondo abbastanza ristretto se vogliamo, anche nei numeri.
Lui ha abitato un po’ di tutto, rock, pop, jazz, folk, sperimentazione, blues rurale e non, noise…come è giusto che faccia un vero musicista, curioso e con la voglia di crescere sempre.

Che ne pensi degli Afterhours?

Non conosco molto, soprattutto gli After, anche se a qualcuno può sembrare strano ma, per quanto abbia ascoltato fino a oggi, ne stimo pienamente il lavoro e la capacità di aver retto e in qualche modo tirato le fila di un mondo e di un genere, ad esso collegati, che in Italia stentano ancora a poter dire davvero di poter esistere, se non sopravvivere ed essere così riconosciuti o riconoscibili. La massa pensa ad altro e questo è sempre più evidente.

Tra le altre band indie – rock del panorama italiano, chi stimi di più?

Mi piace Il Teatro degli Orrori, mi sono abituato ad aver a che fare con le Luci della Centrale Elettrica o Dente e forse sono io che devo fare ammenda, perché prima ero io che non capivo.
Amo la melodia, la precisione, l’intonazione e il suonare assieme chitarra e voce – e questo cercavo costantemente, ora è diverso.
Sono cambiato e cresciuto e spero che prima o poi tutto possa ricominciare e girare per tutti profondamente.

Todo Modo

Il fatto di essere entrato in un progetto rock che coinvolge anche altre personalità carismatiche sembra aver influenzato il tuo modo di scrivere, che dall’intimistico passa ad un tono più riflessivo e dalle sfaccettature politiche.

Come ti dicevo è un dato di fatto ma, se ti tuffi nei testi, noterai che il mio punto di vista è sempre lo stesso di prima, ne ho solo allargato il raggio d’azione.
Parlavo della famiglia e del mio mondo interiore, ora parlo della proiezione di quello stesso mondo interiore all’esterno o, se vuoi, della mia possibile identificazione con aspetti del reale che esulano dalle mie sole fantasie, paure o vissuti interni. Perché so che da lì parte tutto.
Ho sempre creduto che fosse facile per tutti o normale guardare il mondo da quel punto di vista, ora ho capito che non è così, anche se io continuo a reputarlo alla base di tutto.

Parliamo di genesi dei brani: c’è molta voglia di reagire nei testi che popolano questo bellissimo album. Cosa vi ha ispirato?

La vita, quello che succedeva nei giorni di registrazione e gestazione, tutto.
Ho cercato di nutrirmi del film, del libro, dello stato d’animo che permea le due opere e di quello che univa e differenziava noi tre come uomini. Io voglio parlare sempre dell’essere umano e voglio essere sempre più umano.

Purtroppo dopo i fatti di Parigi, ‘L’attentato‘ è un brano che risulta ferocemente attuale. Qual è il tuo personale parere rispetto alla modalità di reazione verso il terrore?

Il mio parere sta scritto nella canzone e nei suoi versi, nella sua essenza o esistenza. È tutto molto umano purtroppo, e questo volevo dire.
Sono tante le domande che dobbiamo ancora porci.
Nell’esistenza di Todo Modo, in quanto progetto reale, trovo una voglia di affrancarsi dalle vi comuni.
Io voglio vivere agendo e reagendo ed esprimendo sempre quello che provo di più vero e profondo.
La verità del mio vissuto, in ogni attimo della giornata, è il mio obiettivo e le canzoni sono il veicolo. In questi giorni di concerti, ho introdotto ‘L’attentato‘ sentendomene quasi colpevole, chiaro che è una cosa assurda ma fa da specchio per quello che intendo io per arte.
È una questione di scambio epidermico tra me e il reale, quello che mi sta attorno, tutto viene filtrato dai suoni che ho in testa o nella pancia e da una necessità atavica di narrazione e coinvolgimento altrui nei miei sentimenti.

Todo Modo

Prima dei Todo Modo hai pubblicato da solista sei album, di cui quattro in inglese e gli ultimi due in italiano. Lavori nei quali si legge facilmente un’introspezione accesa, da cui è presumibile che ti sei sempre ispirato alla tua vita nella creazione degli stessi.
Qual è il tuo disco preferito, quello in cui ti rivedi in modo completo?

Sono tutti l’esatta fotografia del momento che stavo vivendo nel momento in cui sono stati composti e registrati, quindi non posso fare classifiche, ma ti devo dire che il passaggio all’italiano con mio disco solista intitolato “Paolo Saporiti” ha fatto (e farà) da spartiacque per me.
E quindi sì, potrebbe vincere la Palma per queste ragioni.

Il tuo disco preferito, parlando di altri artisti?

“Déjà vu” di Crosby, Stills, Nash & Young o “Astral Weeks” di Van Morrison.

Vi sono artisti con cui vorresti collaborare, con quali senti un’affinità particolare?

Sono molto felice degli amici con cui ho e con cui sto lavorando, e spero di farlo per sempre, in qualche modo. Ci sono tante persone che sogno di vedere un giorno, coinvolte nei miei lavori ma chiunque abbia voglia di riconoscermi e di avere a che fare con me e regalare la sua visione unendola alla mia, è ben venuto.

Hai già in mente progetti futuri?

Sto già scrivendo il disco nuovo di Todo Modo e almeno due dischi miei, che vedranno luce nel giro di qualche mese. Inoltre vorrei suonare il più possibile, che per me vuol anche dire poterlo fare per una manciata di volte.

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