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Orville Peck, i nuovi colori del country

Conosciuto come “il cowboy mascherato”, Orville Peck sarà in Italia per la prima volta a novembre con due appuntamenti a Torino e Bologna.
“Pony” è il suo album d’esordio, una raccolta di brani il cui tema principale ruota attorno all’amore, cuori spezzati e voglia di vendetta per sentirsi realizzati nonostante le lacrime versate.
Artista queer, come lui stesso ama definirsi, la sua fama è esplosa agli inizi di questo 2019 e sin da subito si è mostrato al pubblico indossando un cappello da cowboy ed una maschera a frange, divenuta ben presto il suo simbolo identificativo.
Chi si nasconde dietro la maschera?
Meglio non chiederglielo, ma in fondo va bene così: di Orville Peck a noi interessa la musica, non la vita privata.

Come dicono in molti, Orville Peck è il misterioso nuovo re dell’outlaw country o un innovatore che ha dato nuova linfa agli standard del country tradizionale?

Penso sia bello che le persone la vedano in questo modo sebbene io la pensi in modo più semplice.
Mi sento come se stessi solo seguendo i percorsi di molti artisti country classici che hanno combinato la sincerità con un’estetica audace.

Incidi per una etichetta da sempre outsider quale la SUBPOP, hai nelle corde mostri sacri quali Johhny Cash e Roy Orbison, eppure sei straordinariamente fuori dagli standard.
Dove vuole arrivare e cosa vuoi raccontare?

Ho vissuto in cinque diversi Paesi crescendo a contatto con culture differenti tra loro.
Ho viaggiato molto, sono abituato a viaggiare e a non stare fermo, immagino quindi sia ormai nella mia natura andare ovunque mi porti il ​​vento raccontando alle persone le mie esperienze.
Per farlo ho scelto la musica, e tutti mi sembra piuttosto semplice.

Il tuo è un disco che dà dipendenza, lo metti in loop e non ti stanca mai: cerco un perché più evidente e lo trovo dentro una voce che ti cattura, il che evidenzia un grande lavoro fatto sulla vocalità e sull’espressività canora.
Mi sbaglio?

Ti rispondo in modo molto diretto: a me piace cantare, quindi con questa tua analisi immagino proprio che tu non sbagli.
Sì, c’è un grande lavoro e c’è molto impegno dietro tutto questo.

La linea melodica sorprende continuamente, nulla di questo disco è scontato, tra chitarre twangy, malinconie sparse e ballate superbe.
E’ questo che ti proponevi mentre realizzavi “Pony”?
Spostare gli schemi e sorprendere ?

Mi piacciono i dischi che ti portano in un viaggio completo.
Non credo che gli album debbano essere diretti, trovo sia più interessante quando hanno una loro storia da raccontare che si sviluppa in più puntate.
Si può essere creativi e nuovi pur riconoscendo il passato.

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