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Nakhane

Nakhane: un artista poliedrico alla conquista del mondo

Una delle cose più belle tra quelle che accadono all’interno di una redazione è il privilegio di ascoltare in anteprima dischi che sul mercato nazionale arrivano quasi in sordina.
Se da un lato è vero che non tutto merita attenzione, d’altro canto è altrettanto corretto affermare che in Italia sono in pochi a tendere l’orecchio verso quel che arriva dall’estero, soprattutto se si tratta di prodotti esclusi dall’ambiente mainstream.
Un peccato, lo stesso motivo che ci porta in casa nostra a trascurare progetti meritevoli che al posto di scegliere la via sicura del pop si affidano a sonorità diverse e sperimentali.
Ed è proprio grazie alle sue sonorità, così visionarie e raffinate, che ho avuto il piacere di conoscere Nakhane.

Nakhane è un artista poliedrico, dedito alla musica ma anche alla scrittura e alla recitazione.
“You Will Not Die” è il suo secondo disco, un lavoro nel quale confluiscono sonorità elettroniche e ritmi influenzati dalla musica tradizionale africana, a loro volta trama fitta in sostegno di un cantato soul tanto delicato quanto potente.

Nato ad Alice da una famiglia Xhosa, gruppo etnico di origine bantu, Nakhane (il cui nome significa “costruirsi e sorreggersi l’un l’altro”) trasla in musica emozioni ed influenze sonore, frutto di una vita piena di ricordi indimenticabili.
Dai musical americani a Marvin Gaye passando per Nina Simone ed Ahnoni, David Bowie, Busi Mhlongo e tanti altri: questa è la storia di un artista che dall’Africa sta andando alla conquista del mondo.

Come ti sei avvicinato alla musica?

Tutte le donne della mia famiglia cantavano in un coro e la maggior parte di loro erano cantanti d’opera di formazione classica: questo è il mondo nel quale sono cresciuto ed è così che ho compreso e capito non solo l’esistenza della musica ma anche del suo potere – grazie a sessanta voci racchiuse in una stanza!
Mia zia è un’insegnante di musica e maestra di coro, sono sempre stato circondato da molto talento e tanta tecnica.
Quando ho iniziato a frequentare la scuola elementare e c’è stata la disponibilità di venire a contatto con gli strumenti musicali, ho suonato tutto ciò che mi è stato permesso toccare.
Il trombone, la batteria, il piano, la marimba…naturalmente, ho anche iniziato a cantare nel coro, recitato in commedie e musical.
Tutto questo è stato il vero fondamento del musicista che sono oggi.
All’età di 19 anni mia madre mi comprò una chitarra acustica: in quel momento iniziai a scrivere canzoni.
Quando sono riuscito ad avere un repertorio minimo che durasse almeno una mezz’ora è iniziata l’attività dal vivo, con esibizioni per proporre la mia musica.

In Italia il senso della famiglia è molto forte, le madri sono molto protettive con i propri figli, forse addirittura fin troppo.
Qual è stato il rapporto tra te e la tua famiglia?

Stranamente, la mia esperienza con le madri Xhosa è la stessa.
C’è una connessione molto profonda tra madre e figlio, ma non solo.
In realtà è tra tutti i membri della famiglia – e per famiglia includo anche la famiglia allargata.
Fratelli, sorelle, zii, cugini…tante persone non sono sicure di come sono legate tra loro ma quando il clan porta lo stesso nome si sta tutti vicini, uniti come dei famigliari in senso stretto.
La mia famiglia mi è molto vicina, tra noi ci sono sempre stati amore e protezione reciproca. Vengo da una famiglia reale: mio zio è il capo e quindi la volontà di protezione nei confronti l’uno dell’altro è forse più forte.
Una delle lezioni insegnateci dai nostri anziani è: «Quando vedi tuo fratello o tua sorella in lotta, prima difendili e poi chiedi cosa è successo».
L’amore è al centro di tutto ciò che facciamo anche se, ripensandoci ora, mi rendo conto che un tale insegnamento può essere problematico.
Prima di difendere qualcuno ho compreso che è meglio capire in anticipo cosa è accaduto.

Nakhane

L’intervista a Nakhane è stata preceduta da una forte curiosità che mi ha spinta a leggere più notizie possibili sulla sua carriera, la sua vita, la sua storia.
Lessi in una rivista inglese un passaggio molto forte, nel quale si affrontava il tema della sessualità unito a quello della religione.
Mi fece male leggere quelle parole, rimasi turbata.
All’ascolto di “You Will Not Die” si percepisce la volontà di credere in qualcosa di superiore, di più grande ma è una volontà che fa a pugni con la realtà pretenziosa di «guarire la sessualità sbagliata di una persona attraverso la fede».

Perché negare la propria sessualità cercando di essere qualcuno che non si è?
Perché costringersi ad una tale violenza?

In passato ho praticato un tipo di cristianesimo violentemente conservatore.
Ero il “ragazzo manifesto” perfetto, colui che può accettare Cristo poiché egli può curarti dalla tua omosessualità.
All’epoca ci credevo davvero, o volevo davvero crederci.

Il tuo album di debutto, “Brave Confusion”, risale al 2013: quali emozioni contiene quel disco?

È tutto racchiuso nel titolo: ero perso e non mi vergognavo di esserlo.
La maggior parte di quell’album è stata scritta nell’ultimo periodo in cui sono stato cattolico, e all’interno è percepibile l’evoluzione tra ciò che ero e ciò che stavo cercando di essere.
È un album molto triste, un grido d’aiuto.
Però sono felice di averlo scritto, l’arte è potente: ha un modo tutto suo per farci affrontare tutte le cazzate nascoste nel profondo di noi stessi che conosciamo ma che non vogliamo affrontare. La amo anche per questo, l’arte: non ti dà scelta.

Perché così tanto tempo prima di arrivare a pubblicare “You Will Not Die”?
Ho ascoltato l’album in preview, è un lavoro molto intimo dal quale si percepisce una forza immensa.

Sono stato occupato.
Ho pubblicato un romanzo (“Piggy Boy’s Blues”), realizzato un Ep (“The Laughing Son”) e recitato in un film (“The Wound”).
In tutto questo ho comunque scritto molta musica, sapevo cosa volevo fosse l’album e ci è voluto del tempo per arrivarci.
Non è mai stato facile, credo che la facilità sia il più grande nemico dell’arte.
Al contempo non ho mai pensato alla figura di “artista torturato”, semplicemente resto dell’idea che si debba sudare e investire molto per riuscire a creare qualcosa che valga il tempo delle persone.

 

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