Mudhoney: “Siamo sempre gli stessi ragazzini di una volta”
Sono stati i padri del suono che, partito da Seattle, avrebbe spazzato tutto quello che il rock era stato prima di loro. Continuano a pubblicare dischi con credibilità, motivazione, entusiasmo. In trentasei anni, niente litigi, niente avvocati e carte bollate; un solo componente cambiato da allora.
Se nel 2024 si imbarcano in un serrato tour europeo, collezionando un soldout dietro l’altro, allora ci siamo detti: “facciamoci due chiacchiere”
L’ok del management della band è immediato. I Mudhoney confermano la disponibilità e la naturalezza con cui vivono il fare musica. Due soli paletti: il primo è il no allo scatto di ritratti fotografici professionali. Semaforo verde, invece, per i selfie estemporanei e spontanei.
Il secondo: nessuna domanda sui Nirvana.
È un mercoledì di settembre, mi trovo davanti a Steve Turner. La band ha appena terminato il soundcheck della loro prima data italiana. Siamo a Largo Venue, in un salottino all’aperto. Il sole si è nuovamente affacciato dopo un temporale monsonico. Il chitarrista dei Mudhoney è rilassato e sorridente. Io, per ora, solo sorridente mentre rispolvero il mio inglese. Steve è così carino e non mi chiederà mai di ripetere le domande.
Cominciamo da un mio personale rammarico. “Plastic Eternity” è uscito il 7 aprile 2023. Fosse uscito tre giorni dopo avrebbe festeggiato il compleanno insieme al mio. E a proposito di gestazioni e nascite, il disco è stato concepito durante la pandemia. Come ha impattato questo evento in fase di scrittura e di registrazione?
La pandemia ha pesato tantissimo. Non ci siamo potuti vedere per un anno e mezzo, ma in testa avevamo una timeline e una scadenza. Sapevamo che i vaccini stavano per essere distribuiti e che il mondo sarebbe tornato presto alla normalità (Guy Maddison, il bassista, è un infermiere ed era impegnato in prima fila negli ospedali). Sapevamo anche che avremmo dovuto far uscire il disco per tornare di nuovo in tour. Normalmente il nostro modo di lavorare aveva sempre previsto che arrivassimo in studio con le canzoni già pronte per essere registrate. Stavolta avevamo soltanto metà disco. L’altra metà l’abbiamo messa a punto lavorandoci proprio in sede di registrazione.
Altra conseguenza della prolungata separazione tra noi, è stata che Dan, il nostro batterista, ha portato in sala dei demo sui quali aveva iniziato a lavorare. Dopo averli ascoltati, abbiamo deciso di inserirne qualcuno nel disco. ‘Little Dogs’, ad esempio, è nata proprio così. Il paradosso è stato che, mentre all’inizio non avevamo abbastanza pezzi pronti, alla fine siamo arrivati ad avere un numero di canzoni superiore a quelle che effettivamente ci sarebbero servite. Per dei vecchi come noi, che per registrare questo disco sono dovuti uscire dalla loro zona di confort, è stato molto stimolante e divertente.
In ‘Plasticity’, canzone che dà il titolo al disco, parlate di un mondo completamente plastificato. Morale di plastica, emozioni di plastica, verità di plastica. Che immagine vi evoca la plastica?
Nella musica, il concetto di plasticità, inteso come falsità del mondo, è stato introdotto già negli anni Settanta. Penso alla punk band X-Ray Spex che nel 1977 usava immagini di plastica e materiali sintetici come critica al consumismo e alla cultura di massa. Questi oggetti di plastica non sono solo simboli di spreco e falsità, ma sommergono la nostra quotidianità e soprattutto rimarranno in eterno. E poiché la plastica non si distrugge, questi oggetti diventeranno eterni e sopravvivranno alla razza umana. Il fatto è che, quando scrive i testi, Mark ama utilizzare le parole con più valenze e più prospettive contemporaneamente, sia concrete che simboliche. Così la metafora della plastica è perfetta per simboleggiare sia l’eterna falsità del mondo, sia il fatto che tutta questa plastica ci sommergerà
Uno dei singoli usciti è ‘Almost Everything’. Il testo in alcuni tratti recita “Ci sentiamo come un neonato di quattordici miliardi di anni […] Ci sentiamo come un neonato nato prima del tempo” Guardando il video me l’ho immaginato come una sorta di testamento della razza umana
Ah, guarda, su questo non so proprio che dirti. È un testo ermetico, un mistero anche per me. Ho cercato di capire anche io cosa intendesse comunicare Mark, ma niente da fare. Ma lui stesso non te lo spiega. Quando fa così, io ne prendo atto e mi arrendo. Mi va bene così (sorride)
Una canzone con un sound unico è ‘Flush the Fascist’. È qualcosa di completamente diverso da quello che ci si aspetterebbe dai Mudhoney. Come è venuta fuori?
Per ‘Flush the Fascist’, Guy, il nostro bassista, ha sfruttato in studio la sperimentazione con i sintetizzatori e con l’elettronica portata avanti con diverse band. Ci ha illustrato sue le idee per questo pezzo e noi le abbiamo messe in pratica. Pensiamo che la canzone sia riuscita benissimo e per quest l’abbiamo immediatamente inserita nella setlist del tour. Purtroppo, due giorni fa si è rotto il sintetizzatore, e così stasera non potremo suonarla.
A proposito della costruzione del suono, all’inizio della vostra carriera avete dedicato un EP a due pedali per chitarra: il Big Muff e il Superfuzz. Come create oggi il vostro suono?
Certo che li usiamo ancora. Io il Big Muff e Mark il Super Fuzz. Anche se oggi in realtà ci sono molti artigiani che costruiscono pedali per chitarra customizzati. Quindi suoniamo con pedali con alcune differenze rispetto a quelli originali di una volta. E abbiamo la fortuna di avere una scelta di effetti maggiore rispetto a quella che avevamo un tempo.
Ti costruisci qualche pedale anche da solo?
No, non lo faccio. Ma per fortuna in parecchi me li regalano. Ed è fantastico, perché mi propongono sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di particolare per il mio suono.
Quando sono andato a spulciarmi le date del vostro tour europeo sono rimasto di stucco. 33 concerti in 37 giorni, in undici diversi paesi. Da dove traete l’energia? Qual è il vostro segreto?
Eh, speriamo di non pentircene tra un paio di settimane (ride di gusto). Scherzi a parte, il segreto in realtà è più semplice di quanto si pensi: ci vogliamo bene, ci divertiamo e ci piace stare insieme la maggior parte del tempo possibile. Amiamo cenare insieme, uscire insieme. Viviamo a stretto contatto e ci spostiamo con uno sleeper-bus. Niente hotel, i posti letto sono nell’autobus. Dormiamo durante i trasferimenti da una città all’altra, mentre il nostro autista riposa di giorno, una volta arrivati. Come sta facendo in questo momento. Quando i trasferimenti sono molto lunghi invece ci fermiamo. Due sere fa abbiamo suonato a Barcellona e la notte ci siamo fermati a dormire in un resort sul mare, uno yacht club molto carino. Stanotte invece dormiremo in autobus durante il trasferimento a Firenze.
Tornando in Europa, che impressione avete avuto del Vecchio Continente e che sensazioni vi regala?
Rispetto a due anni fa non vedo grandi cambiamenti. Per noi è sempre bello suonare nel vecchio continente. All’inizio del tour siamo stati alcuni giorni in Olanda, dove abbiamo anche fatto delle prove e siamo stati molto bene. A dire il vero, amiamo molto tutti i paesi che stiamo visitando e ci fa molto piacere ritornarvi. In più, abbiamo amici in tutti i paesi toccati dal tour e così abbiamo anche l’occasione di riabbracciarli.
Sempre a proposito di Europa. In ‘Flush the Fascist’, esplicitate ancora una volta la vostra posizione politica. In Francia e in Germania, le idee reazionarie e conservatrici stanno trovando sempre maggior consenso. Tornate in Italia dopo 6 anni: nel 2018 avevamo un partito di estrema destra alleato con il movimento fondato da un comico. Oggi non abbiamo più nemmeno il comico, ma i partiti di destra sono due, uno dichiaratamente di ispirazione fascista. Negli Stati Uniti invece è ritornato Donald Trump. Tra quattro mesi si vota per le presidenziali. Nella notte appena trascorsa c’è stato il confronto televisivo tra Kamala Harris e Donald Trump. Hai avuto modo di seguirlo? Come vedi la lotta per la Presidenza?
La mia ragazza ha visto il dibattito in diretta e Mark lo ha visto oggi mentre eravamo in pullman. La verità è che Trump è un idiota, ma in questo momento l’estrema destra isolazionista sta avendo seguito tra molte persone nel mondo occidentale. Trump è così idiota che tempo fa, parlando di immigrazione ha detto “Ma perché vengono sempre dagli stessi paesi? Non possiamo prendere più persone dalla Norvegia?”
E nel dibattito si è confermato. Sa solo mentire, e lamentarsi di come sono andate le elezioni nel 2020. Fomenta odio e risentimento. È sempre contro tutto e tutti, non esprime mai un punto di vista che potrebbe essere costruttivo e di aiuto per qualcuno. Kamala Harris invece è andata alla grande, è stata positiva e propositiva. È rimasta calma e ferma sui suoi punti, cosa non facile quando hai davanti un bullo provocatore come Trump.
Ieri ha detto che, a Springfield, gli immigrati mangiano cani e gatti.
Sì, è semplicemente un pazzo. Tim Waltz, (braccio destro di Kamala Harris n.d.r.) usa l’aggettivo “weird” (“dementi” o “squilibrati”) quando si riferisce a lui e a Vance, candidato vicepresidente per i repubblicani. Li ridicolizza, li sminuisce. Penso che chiamarli così sia efficace e anche appropriato.
Cosa può fare il mondo della musica per sensibilizzare e combattere la piaga dell’estrema destra?
Può fare tantissimo. Da noi negli USA una grande mossa è stata quella di Taylor Swift, che di recente ha dichiarato di appoggiare apertamente Kamala. Soprattutto perché il suo endorsment potrà spingere tanti giovani a registrarsi nelle liste elettorali e partecipare al voto. Anche ci siamo attivati ed esposti e cerchiamo di farlo nella nostra maniera punk rock. Certo, non è moltissimo, è un po’ come fare pipì controvento. Ma ci proviamo.
Recentemente Thurston Moore ha dichiarato: “non odio il mainstream, ma non mi piace il suo carattere imperialista”. Voi siete considerati tra gli alfieri della musica indipendente. Qual è la tua opinione sull’industria musicale oggi?
Non odio nemmeno io la musica mainstream. Semplicemente non mi interessa. Non mi è mai interessata. Quando ho iniziato ad ascoltare e fare musica, ho istintivamente e naturalmente seguito la musica più punk e più alternativa. E continuo a farlo oggi. In una fase della nostra carriera noi siamo stati prodotti da una major (la Reprise, affiliata alla Warner n.d.r.)., ma non abbiamo storie horror da raccontare. Ci hanno lasciato fare quello che volevamo, senza pressioni. Poi ci hanno mollato, ci hanno ridato i diritti delle canzoni ed è finita lì.
Oggi siamo nel boom dell’intelligenza artificiale. Nel vostro penultimo album, “Digital Garbage” siete stati molto critici nei confronti dei social, degli smartphone e di una realtà sempre più digitalizzata. Quale pensi possa essere l’impatto dell’AI, sia nella vita quotidiana delle persone che nel mondo della musica?
Oh, non lo so. L’AI sta crescendo così velocemente che non siamo in grado di prevedere dove ci porterà. O quantomeno io non riesco a farlo. Relativamente alla musica, magari inventeranno un clone digitale dei Mudhoney, e potrebbe essere molto interessante. Potrà aiutarci a scrivere qualche canzone, non si sa mai. Sarebbe divertente.
Mark ha spesso descritto come il vostro periodo più felice sia stato quello precedente al boom della scena di Seattle, quando pensavate solo a divertirvi, a suonare senza avere aspettative e senza preoccuparvi di piacere per forza. Con il web, i social e le piattaforme è ancora possibile viversela in questo modo o le pressioni dei numeri dello streaming sono troppo alte?
Oh, non sono così pessimista e drastico e personalmente non demonizzo del tutto la realtà digitale. Dipende sempre da situazioni e circostanze e da come decidi di porti rispetto alla tecnologia. Vedo le giovani band che ci accompagnano nei tour e aprono i live. Rispetto a noi, hanno abbracciato i social media con molta naturalezza e spontaneità e senza particolare stress. Conoscono tantissime band grazie al web e ai social, creano immediatamente una rete di contatti e la mantengono. Si confrontano, si raccontano esperienze e si aiutano anche tra loro. Usano moltissimo Instagram e non solo per condividere video o notizie sui loro concerti. Ad esempio, quando sono in tour in diverse città, si offrono reciprocamente alloggio e si danno una mano molto più velocemente rispetto a come lo facevamo noi, via telefono o addirittura via lettere cartacee. Hanno una capacità di adattamento ai cambiamenti migliore della nostra.
Alla fine, cambia solo il mezzo o lo strumento, ma il mood è rimasto lo stesso
Certamente. È chiaro che ci sono diversi modi in cui si possono utilizzare i social media. Ho visto di recente un documentario su Lil Peep, un artista scomparso una decina di anni fa (nel 2017, all’età di 21 anni n.d.r) probabilmente per overdose. Faceva un genere definito “mumble rap”, un sottogenere dell’hip hop. In pratica, questo ragazzino bianco mormorava e borbottava nei pezzi, e la sua musica era distribuita soltanto su Soundcloud e Youtube. Non ha mai prodotto dischi, né video e la sua carriera è continuata anche dopo la sua morte con brani postumi. Per me una cosa del genere sarebbe impossibile anche solo da concepire. Per i ragazzi che iniziano a suonare è un’opportunità e fanno bene a sfruttarla.
Sono convinto che, per chi fa arte, non sia cosa o come si suona, si dipinge, si scrive o si scolpisce, a colpire il pubblico e ad arrivare alla sua anima. Conta solo chi si è. Quindi, chi sono oggi i Mudhoney e come traducono loro stessi nella loro musica?
(Sorride). Penso che oggi siamo la versione cresciuta di quei ragazzini che tanti anni fa iniziavano a suonare. Mark e io abbiamo ormai figli grandi. Suoniamo insieme da più di trentacinque anni. Siamo passati attraverso tante esperienze e tante storie e siamo semplicemente gli stessi di allora, solo con più cicatrici. Ho scritto un libro, uscito lo scorso anno proprio su questo tema. Si chiama “Mud Ride”, in cui racconto quegli anni in prima persona. Purtroppo, esiste solo in lingua inglese e spagnola.
Allora non mi resta che sperare in un’ulteriore evoluzione dell’intelligenza artificiale per le traduzioni di testi cartacei
Eh, ti capisco. Anni fa, a Milano, ho conosciuto una donna molto in gamba che ha scritto un libro su Andrew Wood e sui Mother Love Bone. L’ho aiutata mettendola in contatto con i componenti della band che sono ancora vivi. E mi dispiace tantissimo non aver potuto leggere il libro perché è solo in italiano. (la donna è Valeria Sgarella, il libro è “Andy Wood: l’Inventore del Grunge”. Steve non lo sa ancora, ma è uscita l’edizione in lingua inglese e presto ne riceverà una copia n.d.r.)
Ti lascio libero e ti auguro un grande in bocca al lupo per il concerto di stasera e il resto del tour.
Grazie. Penso che il concerto di stasera sarà potente. Abbiamo fatto un bel soundcheck, siamo molto soddisfatti. E credo che anche la cena sarà grande come il concerto. Non vediamo l’ora di sederci a tavola. L’ultima volta che abbiamo suonato qui, ci portarono in un posto molto vicino a dove ci troviamo ora e mangiammo alla grande. Alla fine, ci facemmo tutti quanti una foto con tutto lo staff del ristorante dentro la loro cucina. Oggi appena arrivati siamo andati a cercarlo, ma non riuscivamo a trovarlo. Non eravamo sicuri di essere nel posto giusto. Ma nel telefono avevo la foto scattata anni fa, Così sono entrato, l’ho mostrata a una persona che era lì chiedendogli: “È la vostra cucina questa?”. La risposta è stata: “Certo, guarda sono proprio io nella foto!” Torneremo lì anche stasera e penso che accadrà la stessa cosa.
Il volto di Steve Turner si illumina. A saperlo prima, altro che musica, solo domande su guanciale, pecorino e rigatoni. La carbonara mette tutti d’accordo; anche i padri del Seattle sound
* Senza Chiara Lucarelli che ha tradotto in simultanea le risposte di Steve, tutto ciò non sarebbe stato possibile. La ringrazierò fino alla fine dei giorni.