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Mudhoney, sempre fedeli ai propri ideali

Lo scorso novembre i Mudhoney sono tornati in Italia per un mini tour in tre date (Bologna, Roma e Milano).
L’occasione è stata la celebrazione dei trent’anni di attività della band che nel mese di settembre ha anche dato alle stampe il decimo album studio, “Digital Garbage”.
Prima del concerto al Largo Venue di Roma, Mark Arm, voce e chitarra del gruppo, ci ha accolti nel backstage: tra risate e riflessioni, siamo così andati a scavare nella storia della band, dando uno sguardo al loro percorso dagli albori sino ad oggi.
Cosa abbiamo scoperto?
Che trent’anni dopo l’energia e la sintonia del gruppo sono sempre le stesse e forse, tutto sommato, si stava meglio quando il grunge ancora non era esploso raggiungendo il grande pubblico.
D’altronde, Mark è l’anti star per eccellenza: uno che ama le dimensioni più intime e che ancora oggi non ha capito come ha fatto ad uscire da quella nicchia che, trent’anni fa, era riservata solo al pubblico di Seattle.

Parliamo un po’ del vostro ultimo album: qual è l’idea di base di questo disco?
Cosa vi ha spinto a tornare in studio per la decima volta in trent’anni di carriera dei Mudhoney?

Avevamo programmato di tornare in studio già uno o due anni prima, ma io e Steve siamo stati distratti da alcuni eventi che ci hanno un po’ messo i bastoni tra le ruote.
Nel 2016 decisi di aspettare che finissero le elezioni presidenziali, con la speranza di poter scrivere di cose normali – ma purtroppo non è stato questo il caso.
Così, quando finalmente nel 2017 abbiamo iniziato a lavorare al nuovo album, il risultato era sia sullo sfondo che in primo piano rispetto a tutto: questo disco è il risultato dei tempi, non tanto della musica, solo dei testi.

Raccontaci qualcosa in più sul titolo, “Digital Garbage”: si riferisce forse ai tempi in cui viviamo, in termini di notizie false o dominanti strategie di comunicazione?

È da leggersi in senso più ampio.
Mi riferisco a tutta la merda che c’è in internet, e le fake news sono parte di esso, ovviamente.
Alcune di queste sono cose nelle quali non potresti mai incappare, soprattutto quando cerchi qualcosa nello specifico, ma quando qualcosa viene pubblicato online lo si sa: resta lì per sempre, nel bene e nel male.
Forse non in termini di spazio fisico, ma di server…resta sempre una traccia. 

Qual è il tuo approccio per evitare le notizie false, la “spazzatura digitale” di internet?

Il mio approccio è quello di evitare il più possibile i social media.
Ma sono il solo a farlo, credo che tutti gli altri membri della band siano almeno presenti su Instagram e se non sbaglio Dan dovrebbe essere un grande fan di Snapchat.

Prima hai menzionato la politica e non è un mistero: sia tu che la band non siete mai stati timidi in merito, avete sempre espresso senza timore le vostre idee.
Sei in qualche modo consapevole di quale sia la situazione politica in Italia?

Sì, avete un partito che è stato fondato da un comico che si è fuso con un partito di destra, e stanno governando insieme il Paese.

È corretto sì.
Sei in grado di confrontarlo in qualche modo con quello che sta succedendo negli Stati Uniti?

Onestamente non ne so abbastanza di quello che succede in Italia, ma sì, è paragonabile alla nostra situazione e anche a quello che sta succedendo in tutto il mondo con la crescita dei nazionalismi, il che è una cosa davvero pazzesca.
Voglio dire, guarda cosa è successo in Brasile con le elezioni: io non lo comprendo.
Per non parlare poi della Francia e di tutti i voti ottenuti da Marine Le Pen.
Intendo dire, l’idea che quasi la metà della popolazione voti per qualcuno del genere, in qualsiasi paese, è assurda.

Torniamo ai Mudhoney e alla loro musica: come ci si sente ad entrare in uno studio di registrazione con gli stessi membri con cui hai suonato per buona parte degli ultimi 30 anni?

È ​​sempre bello. In realtà non trascorriamo molto tempo in studio quando registriamo, le canzoni sono piuttosto elaborate.
Abbiamo un piccolo dispositivo di registrazione digitale nella nostra sala prove, quindi registriamo lì tutte le nostre idee musicali e poi mettiamo insieme le cose, di solito basandoci sui testi che ho scritto.
Poi li ri-registriamo per avere un’idea di come suonano e così con questi demo andiamo in studio.
Abbiamo registrato con Johnny Sangster, che ha prodotto “Vanishing Point” e alcuni brani di “Under a Billion Suns”, e che era l’ingegnere di “Since We’re Become Translucent”.
È stato bello, ed è stato facile.
Arrivati a questo punto sappiamo cosa stiamo facendo: andare in uno studio non è più una cosa travolgente come un tempo.
Mi ricordo ad esempio di quando ero un ragazzino ed entravo in studio con la mia band: all’epoca non avevo idea di come funzionassero le cose.

I Mudhoney hanno iniziato il loro percorso con la Sub Pop Records, poi sono passati alla Reprise per poi tornare di nuovo alla Sub Pop.
Cosa c’è di così speciale in questa etichetta, tale da renderla eccezionale rispetto alle altre?

Non ne sono esattamente sicuro.
Quando è nata, Sub Pop era un’etichetta fondata da alcuni dei nostri amici e noi, come loro, eravamo in partenza con la nostra carriera.
Abbiamo realizzato solo un paio di album a nome Green River prima che la Sub Pop aprisse i battenti: stavamo davvero cercando contemporaneamente, tutti quanti, di capire come funzionavano le cose.
E credo siamo stati proprio fortunati come band nell’avere degli amici che hanno finito per creare un’etichetta di registrazione molto buona.
Voglio dire, abbiamo conosciuto un sacco di etichette che esistevano solo da pochi anni e poi per i motivi più svariati sono scomparse: è piuttosto strano pensare che la Sub Pop sia ancora in attività, più forte che mai.

Parlando della scena di Seattle, come si confronta il presente con quella che viene comunemente definita l’epoca d’oro dei “giorni del grunge”?

Penso che molto dipenda da cosa intendi per “periodo dell’era d’oro di Seattle”.
Per me il periodo più emozionante di Seattle, se devo essere nostalgico e guardare indietro nel tempo, è stato l’esatto momento prima che tutto diventasse grande, quando gli spettacoli potevano variare da 30 a 200 presenti.
C’erano band che duravano il tempo di un solo spettacolo e noi avevamo l’abitudine di andare sempre agli spettacoli degli altri.
Era qualcosa da fare, come dire «Non voglio stare a casa a guardare la tv» o «Che altro sta succedendo che mi emoziona più di questa scena musicale?».
Se si pensa alla popolazione totale della città e al numero effettivo di persone che partecipavano a questi spettacoli, va da sé che questo ragionamento lo faceva solo una minuscola frazione di persone.
All’epoca nessuno pensava davvero che tutto quel fermento avrebbe portato a qualcosa di più grande, ed infatti la maggior parte delle persone continuò comunque a non frequentare certi locali e certi concerti.
Il mio amico Faith a quei tempi era direttore musicale per una radio locale del college.
Un giorno fece una compilation in cassette, includendo alcune band tra cui i  Bundle of Hiss di Dan (Peters, batterista dei Mudhoney, ndr) e la inviò alle maggiori etichette: la intitolò “Band che faranno soldi”.
All’interno di quella compilation c’erano anche i Soundgarden, ma quella fu l’unica band che finì effettivamente per fare soldi.
Quel momento, il momento prima che esplodesse tutto, era un momento solo per coloro che lo hanno vissuto passando il tempo insieme, a fare qualche cazzata, suonare nelle band e divertirsi.
Non mi considero una persona nostalgica, ma è quella l’epoca a cui torno con la mente e che mi piace di più: quella che riguarda solo un gruppo di amici che fanno festa, vanno agli spettacoli, bevono molta birra e prendono MDA.
Quando le cose cominciarono a smuoversi e venimmo in Europa per la prima volta (1989), non eravamo nemmeno molto consapevoli di quello che stava succedendo a Seattle.
Quindi quando tornammo, andammo come sempre ai concerti dei nostri amici e delle altre band e notammo che molte più persone partecipavano a questi spettacoli e pensammo «Ma che strano!».
Poi abbiamo notato che a questi eventi non c’erano più le stesse persone di prima: per loro le cose erano ormai cambiate, non erano ovviamente più come un tempo.
D’altronde, ci sarà sempre gente che predilige le situazioni piccole, più contenute, così da poterle preservare per pochi.

Mudhoney

Molte band negli anni sono diventare più mainstream ottenendo un ampio successo.
Secondo te, quanto è difficile rimanere fedeli a sé stessi e al proprio stile, nonché al sound, durante la propria carriera?

Puntando il dito alla mia maglietta e ridacchiando, Mark chiede se questa domanda per caso è stata posta anche ai Melvins.

Restare sé stessi è la cosa più semplice che si può fare.
Per me è molto più difficile inseguire le tendenze, voler essere grandi, cercare di capire cosa i ragazzi possono aver voglia di ascoltare: deve essere difficile e a me non sembra molto naturale.
Ma se tu resti fedele a te stesso e continui a suonare senza pensare a quali potrebbero essere le implicazioni, è tutto molto semplice.
È come quando i Melvins decidono di fare un disco, loro dicono «questo siamo noi, sappiamo che non sarà un grande successo ma avremo sicuramente un gruppo di persone che vorranno ascoltarlo».
Ed è esattamente lo stesso modo in cui ci sentiamo noi.

Tutto questo sembra davvero sensato, tuttavia abbiamo visto più e più volte come le band si trasformino spesso in qualcosa di più attraente per le masse.
E mi chiedo perché, se è così facile, le persone si discostano nel tempo dal loro vero suono.

Dovrseti davvero chiederlo alle altre bands perché non so proprio che risposta darti.

Dicci qualcosa sul vostro suono: cosa lo rende così distinto e riconoscibile?
Qual è il processo creativo che si nasconde dietro al vostro sound?

Penso che il suono dei Mudhoney sia la somma di stili dei singoli giocatori della band: come Steve ha uno stile di chitarra davvero unico (i suoi assoli non sono affatto normali), Dan ha uno stile di batteria davvero eccezionale – voglio dire, la prima volta che l’ho visto suonare aveva 16 anni!
Anche Guy ha uno stile molto distinto mentre io ho una voce limitata da quello che è ed è anche il materiale che esce quando noi quattro suoniamo insieme.
Sì, è abbastanza semplice.

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