Martino Adriani, l’amore raccontato attraverso i propri “mostri”
Martino Adriani è in tour per la promozione del suo terzo album
“Occhi” è un disco che segna l’ennesima crescita stilistica di Adriani
All’ascolto dei suoi brani, in effetti, ci si ritrova immersi in racconti moderni che narrano la quotidianità.
Il linguaggio sonoro è attuale ma, al contempo, estraneo al mainstream da classifica: per andare a ripescare la poesia di un cantato pulito, senza autotune e rime distorte.
A causa di una sorta di restrizione mentale, spesso siamo portati ad associare i musicisti campani a sonorità di stampo folk con testi in lingua napoletana.
Con Adriani siamo invece davanti ad un altro musicista della “nuova generazione campana” e lo si comprende non tanto dall’uso della lingua italiana quanto dal sound: non propriamente pop, non del tutto alternative.
Insomma, un meltin’pot davvero interessante.
Posso chiedere da dove deriva il tuo sound?
Qual è il tuo background di ascolti ed influenze?
Non so se abbiano influenzato l’album, ma nel periodo in cui è stato scritto e registrato (lo ricordo bene perché era quello duro del Covid) i miei ascolti quotidiani erano Deerhunter, Yo La Tengo, Devendra Banhart, Grinderman, Swans, John Cage, Paolo Conte, Andrea Laszlo De Simone.
In generale, i generi che prediligo sono alt rock, noise, new wave, ambient.
E, ovviamente, adoro il cantautorato italiano.
Quello di Conte, Dalla, Gaber, Graziani, De André, Gaetano.
“Occhi” è il tuo ultimo lavoro e all’orecchio arriva come un disco con brani che sembrano scritti apposta per raggiungere i primi posti delle classifiche indie (segnalo ‘Mostri’).
Il tema principale è legato all’amore ma ciò che percepisco, in generale, è un fil rouge di tristezza che lega tra loro i brani.
È così difficile sopravvivere all’amore ai giorni nostri?
È difficile “sopravvivere all’amore che muore”, a certe improvvise distanze, all’amara nostalgia di un incanto svanito.
Ancor più dolorosa è la perdita di fiducia nell’amore, che però paradossalmente può trasformarsi in una liberazione.
Hai percepito bene, c’è un mood di malinconia che accompagna l’intero disco.
Malinconia che si fa più scura su canzoni che, appunto, parlano di fine, come ‘Rospo‘ e ‘Serotonina‘, e si fa più dolce su canzoni d’amore, e di rinascita, come ‘Romantici sul serio‘, ‘Divano‘, ‘Venere‘.
A proposito di ‘Divano‘: è stato il primo singolo ad anticipare il disco e mi sembra il fermo immagine di uno spaccato di quotidianità che potrebbe riguardare chiunque di noi.
È raccontato con semplicità, così come il linguaggio scelto per tutto il disco: diretto, semplice eppure al contempo elaborato nei richiami e nelle metafore.
Mi viene da chiederti se ami la lettura e, se la risposta è affermativa, quali sono i tuoi autori preferiti.
Amo da sempre i poeti maledetti del decadentismo francese, su tutti Baudeleire, Verlaine, Rimbaude (menzionati, tra l’altro, nel brano ‘Mostri‘).
Negli ultimi anni, però, mi sto dedicando alla sola lettura di biografie – o meglio ancora, autobiografie.
Ne divoro in abbondanza: se mi appassiona un personaggio, che sia un poeta, un musicista, un pittore, uno sportivo, ho l’esigenza di voler conoscere la sua vita, le sue storie personali.
Di tutto il disco, c’è un brano che ti identifica maggiormente?
Se sì, ti va di raccontare il perché?
Ci sono posti del cuore e posti dell’anima da cui è difficile allontanarsi. E ci sono mostri difficili da domare.
‘Mostri‘ è il brano che mi sento più cucito addosso.
Hai calcato il palco diverse volte, aprendo i concerti dei nomi più importanti del panorama indie nazionale.
Lo Stato Sociale, Bugo, Diaframma, Giorgio Poi: sono artisti musicalmente diversi tra loro, c’è qualcuno a cui ti sei sentito più legato?
Giorgio Canali e Cristiano Godano.
Sono un loro fan di vecchia data, e conoscere due bellissime persone è stata ancor di più una piacevole scoperta.
Parlando proprio di Godano, hai avuto modo di collaborare con lui diverse volte: ci puoi raccontare cosa (e se) ti ha insegnato qualcosa sul piano professionale, lavorare con lui?
Ho invitato Cristiano in due occasioni al Festival che organizzo in Cilento, il Giovivendo, una volta coi Marlene Kuntz, una volta in solitaria.
Da lì è nata una simpatia e, fra il 2014 e il 2015, ho aperto un bel numero di suoi show-case.
Un artista di spessore come Cristiano Godano ti insegna molto senza neanche accorgersene, e ovviamente faccio tesoro di ogni momento passato insieme.
Nel 2020 è arrivata la pandemia ed è stato un evento che ha contribuito significativamente ad affossare un settore già di per sé in equilibrio precario.
Da musicista, cosa manca al panorama nazionale per sostenere concretamente il settore?
La pandemia ha messo a nudo dei problemi strutturali e culturali atavici e mai risolti in Italia, dando vita a una crisi che ha colpito soltanto gli artisti piccoli e medi, lasciando indenni i colossi del mainstream.
Dunque andrebbe sostenuto quello che è un “sotto-settore”, visto che, chi sta “in alto”, di problemi non ne ha.
I discografici sono costretti a dedicare il loro tempo e le loro energie esclusivamente alla ricerca di nuovi artisti che siano garanzia di attrazione per i giovanissimi e, ovviamente, ai soliti mostri sacri.
In mezzo c’è un mondo messo sempre più all’angolo.
La pandemia ha di certo amplificato tutto ciò, generando anche una crisi dei concerti, che colpisce le piccole categorie citate sopra, in lizza per una manciata di luoghi.
Mi chiedevi cosa manca?
Un approccio alla musica, da parte delle autorità, ma anche da parte del pubblico “che conta”, diverso, simile a quello dell’Inghilterra, a cui siamo indietro anni luce.
C’è un problema culturale: né più né meno.