Martin Kohlstedt: l’evoluzione sonora del pianoforte
Martin Kohlstedt è un pianista, compositore e produttore tedesco.
Cresciuto nella regione della Turingia, uno dei più piccoli stati federali situato nel cuore della Germania, Kohlstedt viene accreditato da molti come uno dei maggiori esponenti del movimento neoclassico, un nuovo genere musicale frutto della fusione tra la tradizione pianistica e la musica elettronica.
In occasione della ristampa dei suoi dischi “Tag” (2012) e “Nacht” (2014), abbiamo deciso di approfondire proprio con lui la conoscenza di questo movimento – sebbene lui non ci si riconosca in pieno.
In questo periodo c’è molto interesse attorno al movimento neoclassico: cosa pensi di queste definizione?
Per alcuni artisti questa definizione potrebbe funzionare, e sicuramente si tratta di un nuovo termine con grande appeal, qualcosa che incuriosisce le persone.
Non è comunque un termine propriamente adeguato per descrivere la mia musica: il genere che faccio io è troppo nuovo per essere etichettato o per categorizzato con il termine ‘neoclassico’.
Qual è il tuo background musicale?
Il mio background musicale si compone di tante esperienze diverse nel mio passato e nel mio presente.
Ho cominciato a suonare il piano all’età di 12 anni a casa suonando le mie canzoni preferite e cominciando a comporre.
Ho continuato così per 3 anni prima di passare dal piano classico al jazz.
Ho anche fatto parte di tante band e ho prodotto molta musica per film e giochi.
Alla fine, più di tutto, mi sono accorto di voler creare e comporre musica senza diventare un pianista strumentale: quello che mi interessava davvero era poter esplorare la mia mente e i miei confini.
Molti esponenti del neoclassico hanno trovato una perfetta espressione per la loro immaginazione nella creazione di colonne sonore: sto pensando a Nils Frahm con “Victoria” o Trent Reznor con “Before The Flood”.
Se dovessi lavorare su questo tipo di progetto, a quali storie ed immagini vorresti associare la tua musica?
Il mio è un modello di composizione adatto a qualsiasi circostanza in qualsiasi momento.
Se succede che una certa espressione non può essere catturata da un determinato modello, allora espando il mio vocabolario aggiungendo suoni improvvisati in concerti live o attraverso storie di personaggi di fantasia – magari proprio di videogames o di film toccanti.
Finché una storia o un’immagine mi attira e cattura la mia immaginazione sono in grado di accostare la musica a quel contesto: a volte ti puoi immergere in una storia abbastanza a fondo da condividerne la prospettiva, i sentimenti ed i pensieri dei protagonisti.
Questo accade specialmente nei lungometraggi.
“Tag” e “Nacht” sono i tuoi primi dischi: ne ricordi il processo creativo?
Tutto è iniziato con “Tag”: mi sono immerso nella routine giornaliera, nel quotidiano, e sono andato offline.
Ricordo che mi sono seduto al pianoforte durante l’autunno e ho cercato di ricordare le mie prime melodie: dopo aver suonato molti pezzi jazz abbastanza complessi, nelle lezioni al piano volevo riconquistare l’abilità di creare una comunicazione concreta con me stesso.
Da quel momento si è risvegliata in me un nuova percezione di fare musica: “Tag” e “Nacht” sono nati da questo tipo di energia, dopo quattro anni durante i quali ho sviluppato un mio modo di comporre.
Ho dovuto aggiungere una parte di intuizione al modulo, legato a sentimenti retrospettivi.
Al momento improvviso molto con suoni elettronici nei miei set live, e questo entrerà a far parte anche nel mio nuovo disco.
Entrambi i tuoi primi dischi sono stati remixati (“Nacht Reworks” e “Tag Remixes”).
Come sono nati questi dischi?
Quali remix preferisci?
Ad un certo punto ho realizzato quanto fosse problematico per me discutere dei miei sentimenti: è qualcosa di molto più complesso rispetto alla loro trasformazione in pattern musicali, parlarne mi riesce realmente difficile.
Così ho iniziato a ‘risolvere il problema’ cercando di trasformare i miei pensieri in conversazioni infinite con i miei colleghi, amici e familiari.
Allo stesso tempo, ho anche compreso che la maggior parte delle volte le parole mi erano insufficienti per dare un ordine al mio caos interiore: proprio per questo ho iniziato a creare un modo improvvisato per comunicare dal palco.
Davanti alle persone non c’è via d’uscita e devi forzarti a lasciarti andare.
Questo modo di esprimermi attraverso la musica mi ha mostrato così tanta energia da decidermi di pensare nuovamente ad una nuova veste per alcuni brani e l’ho fatto assieme ad altri musicisti per i quali nutro stima e fiducia.
Abbiamo così ripensato “Tag Remixes” e “Nacht Reworks” insieme, allo scopo di concludere e riflettere i miei pensieri ancora una volta.
Alla fine, per me ha significiato e mi ha aiutato molto lavorare a questi remix.
Dal tuo sito vedo che sono in programma molti live set, e non solo in giro per l’Europa.
Qual è stato il posto più toccante in cui hai suonato?
Non saprei decidere, ci sono molti posti bellissimi scolpiti nella mia memoria, ma mi torna alla mente una storia, accaduta in Russia.
Lo scorso autunno ero a San Pietroburgo, seduto in un ristorante con l’organizzatore del Gamma Festival.
Stavo aspettando di suonare il mio set con il pianoforte in mezzo ad una programmazione che vedeva in scaletta centinaia di folli set elettronici quando all’improvviso la polizia ha interrotto l’evento.
Ero dispiaciuto che il mio live fosse stato cancellato, ma la cosa più bella ed inaspettata è stata la reazione dei presenti: il pubblico non ha accettato la situazione, subendola in silenzio.
La gente si è organizzata ed ha portato tutti gli strumenti sul tetto del locale, il DOT: intorno alla mezzanotte tutto era pronto, e per un’ora il dance floor è diventato lo scenario del mio concerto.
Questo fatto è stato più di quello che avrei mai potuto immaginare, e sicuramente è qualcosa che non dimenticherò mai.
Una peculiarità che ho amato nei tuoi dischi è la presenza dei suoni meccanici che emette il piano quando viene suonato: mi riferisco al suono dei tasti, a quello dei pedali…l’ho trovato molto romantico.
Questi tipo di suoni non si può sentire sentire in un disco rock o di musica elettronica.
Entrambi i dischi sono stati registrati nel mio studio di Weimar con otto microfoni.
Ogni microfono è stato posizionato ad una distanza di almeno 1,5 metri dal pianoforte poiché era importante non solo avere il singolo suono dello strumento, ma anche il sentirmi mentre interagivo con esso.
Per me non è una questione romantica, è più un processo stimolante, che è importante condividere con l’ascoltatore: questi rumori e questi accordi portano l’energia della mia musica nell’esistenza.