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Lina Simons

Lina Simons: la rabbia, le origini e il potere magico della parola

Lina Simons è del Leone, e in quanto tale con me percorre corsia preferenziale. Gioco a carte scoperte senza farle faccio mistero di questo, ma a quel punto è lei a chiedere il mio.

Rispondo di essere ariete e di avere ascendente leone anche io. Le leonesse non mi tradiscono mai. «Fuoco su fuoco! I Like it!» è la sua reazione.

È in Italia da alcuni giorni, per alcuni concerti e adempiere ad impegni legati a progetti che stanno prendendo forma. Tra pochi giorni tornerà a Londra, città dove ha scelto di vivere appena diplomatasi, e dove si è laureata in “Imprenditoria Musicale”. Lo scorso anno è uscito “P.A.S.”, il suo primo album: le iniziali sono quelle dei nomi dei componenti della sua famiglia, ma anche le prime lettere del suo nome. Recentemente l’abbiamo vista fare le fiamme sul palco del Primo Maggio a Roma.
Abbiamo concordato una videointervista su zoom, il suo sorriso aperto le illuminerà il volto per tutto il tempo della nostra chiacchierata che andrà avanti a cuore aperto, seguendo il flusso delle sue emozioni, in un italiano musicale, punteggiato da espressioni napoletane (che sicuramente trascriverò in modo non corretto) e inglese.
Ha il dono dell’ironia e dell’umorismo. E’ accogliente e ha la pazienza di attendere la messa a punto del programma di videoconferenza. Me la cavo in pochi secondi e, sollevato dal non aver fatto la figura del boomer, decido di iniziare punzecchiandola un po’ e vista la sua passione per l’astrologia parto da lì.

Lina Simons
Lina Simons

In un video sul tuo canale Tiktok parli del tuo segno zodiacale e ribadisci più volte che hai sempre ragione. Io vorrei sapere invece una volta in cui hai riconosciuto di aver avuto torto?

Ah, guarda, non me lo ricordo davvero. Non credo ci sia stata: davvero, ho sempre ragione. Magari è un meccanismo di difesa che mi porta a dimenticare le volte in cui ho avuto torto ma no, ho sempre ragione – ed anche tu, ascendente leone, sai che è così. 

Cominciamo dal futuro. Ischia, 23 Giugno 2024, un TedX: sei tra le persone invitate a tenere uno speech, sai già di cosa parlerai?

Il tema è “le origini” e guarda qui, nemmeno a farlo apposta mi sono da poco tatuata la parola origins. Ho pensato fosse destino, credo molto ai segnali dell’universo. La prima reazione è stata di sorpresa, seguo da anni i TedX e per prima cosa ho pensato «ma che vado a dicer’ a questi qua». Poi sono stata felice perché sarò nelle mie zone e racconterò delle mie origini. Parlerò della multietnicità e delle storie di noi italiani di seconda generazione. Ma mi sa che non posso spoilerare troppo.

Le origini, appunto: tuo papà è italiano, tua mamma invece viene dalla Nigeria. Racconti che ti ha trasmesso tradizioni, usi, costumi della tribù Bini che sono diventate parte di te.

Si va dagli abiti che indosso, che sono spesso tradizionali, o ad esempio questa coperta che vedi accanto a me, fatta con la tipica stoffa della mia tribù. Anche il lavarsi le parti intime solo con la mano sinistra, è una cosa che faccio sin da piccolina. O il pidgin, l’inglese che si parla in Nigeria, senza il quale sarebbe parecchio difficile comunicare perché esistono più di 400 lingue diverse. Poi anche la cucina, i piatti della tradizione nigeriana.

Sulla questione culinaria avremo modo di tornarci. Intanto nei giorni scorsi leggevo i testi delle tue canzoni e pensavo “però, è incazzata davvero. Speriamo bene…”. Invece mi ritrovo davanti un sorriso coinvolgente e una carica di positività contagiosa. Il contrasto mi sta colpendo particolarmente.

Centrato il punto: le due cose vanno insieme. In realtà sono una persona estremamente incazzata per una serie di cose e la musica, la scrittura sono state la mia terapia. Senza di loro avrei corso il rischio di sfogare la mia intensa rabbia in modo distruttivo e non mi sarebbe piaciuto. Da piccola ero spesso arrabbiata, rispondevo male alle persone. Poi ho scoperto il potere magico della parola che mi ha permesso di trasformare la rabbia in creatività, di incanalare le mie emozioni, dalla gioia più intensa alla rabbia più forte, e di indossare sempre il mio sorriso. La musica è stata la mia salvezza.

Come hai scoperto questa salvezza?

Da piccolina ascoltavo tantissimo quello che mi propinavano i miei genitori. Adoravo alla follia Michael Jackson, Aretha Franklin, Tina Turner. Ma soprattutto tantissime canzoni che si cantavano nelle chiese Evangeliche Pentecostali di Castel Volturno, che frequentavo con mamma. Come forse saprai, le funzioni religiose sono piene di musica: ci sono veri e propri concerti oltre ai cori, ci sono strumenti elettrici come basso, batteria, chitarra. Si canta a cuore e gola aperti, e sono cresciuta così.

E invece con papà cosa ascoltavi?

Neomelodico a manetta, soprattutto quando andavamo a casa di nonna. Si partiva da Nino D’Angelo a finire per Gigione (caposaldo dei neomelodici, n.d.r.) e roba del genere. Ma ero davvero piccolina e crescendo è stato l’ascolto della radio a contribuire alla formazione del mio gusto musicale. Le radio e l’influenza di mia cugina che ascoltava rap italiano. Scoprii i Club Dogo, Fabri Fibra, Miss Simpatia e via dicendo. Insomma, a dodici anni arrivò l’hip hop: fino ad allora, neomelodici a parte, ero immersa nel rythm’n’blues e nella black music di mamma.

Quando hai capito che sarebbe stata la tua strada?

Presto. Mi è sempre piaciuto cantare e a tredici anni decisi che da grande avrei intrapreso questa carriera. Dissi a me stessa «questa cosa la voglio fare». Iniziai con le prime band, un trio acustico chiamato Ten Days e una band chiamata Lake District. Poi entrai nei Simply Singer Squares, un coro gospel. E a un certo punto sentii nascere dentro di me l’esigenza di raccontarmi attraverso la mia musica. Ho scritto la mia prima canzone a quindici anni e a diciotto ho pubblicato il primo pezzo.

Cosa ti catturò del rap?

Rimasi colpita in particolare dal rap americano. I rappers di oltreoceano raccontavano cose più vicine alla mia realtà, le emozioni erano le stesse che provavo io. Per carità, erano e sono bravissimi artisti anche gli italiani, ma mi rivedevo più nel rap made in USA. La mia realtà era quella lì.

Quale era questa realtà?

Era una realtà arrabbiata. Io sono nata a Pozzuoli e ho trascorso l’infanzia a Castel Volturno, in una delle diverse comunità afro che si trovano nei paesi tra Napoli e Caserta (queste comunità sono state, insieme a quella di Rosarno, protagoniste delle uniche sollevazioni popolari contro la criminalità organizzata mai avvenute in Italia n.d.r.). Erano persone come me, mi sentivo accettata e compresa. Un giorno, improvvisamente, ci siamo trasferiti a Cerreto Sannita, nel beneventano, il paese di mio papà. La cosa mi destabilizzò perché io e mamma eravamo le uniche ad avere la pelle nera. A Cerreto ho conosciuto persone fantastiche, con le quali sono ancora in contatto, ma ho incontrato anche tanti scemi. E le parole di questi scemi facevano male, malissimo, anche se a volte sotto forma di battuta scherzosa. Aggiungi la mia emotività accentuata: il totale della somma era la rabbia che montava dentro me. Mi sentivo soffocare dall’ignoranza di queste persone e allora appena ho compiuto diciotto anni me ne sono andata a Londra. In realtà vivevo l’ambivalenza di un rapporto amore-odio, perché non è stato solo questo. Da una parte la stupidità dei bulli, dall’altra alcune delle persone più belle che ho conosciuto nella mia vita, le prime esperienze, relazioni importanti. Una situazione fifty-fifty.

In un video sul tuo canale Tiktok dici che sei una donna che non perdona.

No, non perdono facilmente le cose che mi sono state fatte. In quel video parlavo dei bulli e delle persone omofobe, soprattutto se sono persone adulte in età della ragione.

Immagino il disorientamento: sei passata dal vivere l’esperienza di appartenere ad una comunità, a una situazione di estraneità in cui la gente ti guardava come se fossi venuta da un altro mondo.

Infatti, mamma ha sempre tenuto vivo il legame con Castel Volturno: appena può affitta una piccola casa per tornarci qualche giorno. E io con lei, perché lì ho amici. Anzi, di più: ho una famiglia, persone che io chiamo zio e zia. Per me è importantissimo e bellissimo. Poi parecchi ragazzi di lì si sono trasferiti a Londra, così continuiamo a vederci e facciamo comunità pure là. A Cerreto non sono riuscita ad entrare nella comunità, nonostante ci abbia provato in diversi modi. Partecipavo ai forum dei giovani, aderivo a tante iniziative ma c’era sempre qualcosa che mi faceva dire «mmh, ok. It’s ok but…hmmm». Ma un giorno, d’improvviso, scopro l’immenso potere della parola. Scrivevo, poi andavo a cercare delle basi interessanti su YouTube, sperimentavo e prendevano forma le prime canzoni. Intorno ai sedici anni conosco alcuni produttori della mia zona e inizio a portare avanti i miei primi progetti e le prime registrazioni. A Londra compravo i diritti delle basi su YouTube e pubblicavo le mie prime canzoni. Il mio primo singolo si chiamava ‘Italy’.

Poi la svolta

Era un puzzle che si andava via via formando. Mi contatta un fotografo per fare dei servizi, iniziano a uscire alcuni articoli su di me ed uno di questi lo scrive Federico Vacalebre, il critico musicale del Mattino. Questo pezzo lo legge Marco Villa, o Gransta MSV se preferisci, che mi contatta per chiedermi di entrare a far parte del rooster della Mine Music Label, etichetta che stava aprendo a Milano. Mi presi del tempo per pensarci: non avevo vincoli contrattuali ma avrei dovuto lasciare le persone che fino a quel momento mi stavano seguendo. Ho ascoltato il mio intuito che, come ti dicevo, ha sempre ragione e non sbaglia mai e mi sono detta: «Pasquali’ vai, dici che sì. I tuoi mentori capiranno». E Marco diventa il mio produttore. Sono stata fortunata. Marco è un grandissimo, con lui, Maurizio Vassallo e Maurizio Ridolfo lavoriamo insieme da quattro anni. Hanno compreso le mie aspirazioni e il loro obiettivo è stato quello di aiutarmi a tirar fuori il meglio di me stessa.

Oggi stai raccogliendo quanto seminato e cominciano ad arrivare visibilità e successo. Esibizioni in tv, il Palco del Primo Maggio, articoli e interviste su importanti magazine musicali e non solo, sei intervenuta ad un workshop al Parlamento Europeo, sarai al prossimo TedX. Ti capita mai di reincontrare qualcuno di quelli che anni fa ti discriminava o ti faceva battute a proposito delle tue origini? Qual è la sua reazione? E quale la tua?

Oh, sì, molto spesso, soprattutto in questi giorni in cui sono tornata in Italia. Oggi tutti mi fanno i complimenti ed io mi comporto come faccio con tutti: ringrazio in modo garbato. Forse fin troppo garbato, perché t’ammeritasse na sputazz ‘n facc. Poi dentro di me penso «I told you»: te l’avevo detto, io ci credevo, tu no. E mi basta la consapevolezza di essere riuscita a fare ciò che dicevo.

Come nascono i tuoi pezzi? Qual è il processo di creazione e produzione?

I primi tempi i miei produttori mi inviavano una serie di beat, io sceglievo quello che mi ispirava di più e poi, ci scrivevo sopra un testo sulla base delle mie emozioni. Oggi a volte avviene il contrario: scrivo di getto un testo e magari aggiungo anche una traccia di riferimento, in modo da aiutarli a capire qual è il mood al quale mi ispiro e loro ci lavorano sopra. Non ho un processo o un modus operandi, ma sono tutta istinto. Anche la scelta della lingua dei testi viene da sola: spesso metto insieme l’inglese e il napoletano, sono due lingue che si mischiano bene, come il grandissimo Pino Daniele ci ha dimostrato con il suo napolenglish.

E i testi sono “importanti”. Ad esempio, ‘AAAnimal tocca il tema della salute mentale, tema un tempo tabù, che non sembra più essere tale per i giovani. Cosa è che senti di avere in comune con la tua generazione e che metti dentro i tuoi testi?

Credo il fatto di vivere perennemente in una terra di mezzo. Siamo sempre in una fase di transizione delle nostre vite, una continua uscita dall’adolescenza senza diventare mai adulti fino in fondo. Oltre al fatto di essere immersi in una società che si rivoluziona ogni due/tre anni e ci costringe a restare sempre al passo con quello che accade. Però rispetto ai grandi siamo più aperti verso molte questioni. Una di queste è proprio la salute mentale. Tu mi dici: «un tempo guai a dire in giro che andavi dallo psicologo», oggi ti dico io «magari potersi permettere di andare dallo psicologo per prendersi cura della qualità della propria vita emotiva». Per non parlare anche dei temi legati all’identità di genere: la mia generazione e quella successiva, stanno superando la polarizzazione del pensiero. Non esistono un e un no ben definiti. Cosa significa essere uomo? Cosa significa essere donna? Cosa significa essere qualsiasi cosa tu voglia essere? Non siamo così drastici e categorici nelle risposte a queste domande e nelle valutazioni. Ci sono tantissime cose che mi accomunano con la mia generazione, sia belle che meno belle. Anche qui it’s a balance, fifty fifty.

Dimmi invece una cosa meno bella

L’incertezza, la paura del domani. Il fatto che pensando sempre al domani, ci dimentichiamo di vivere l’oggi e non stiamo ben saldi per terra, senza godere quello che abbiamo nel presente. E poi la società ci mette una grandissima pressione nel dover fare cose. Ti devi sistemare, devi avere successo, non sederti mai a riposare, pensa sempre a cosa dovrai fare dopo. Fai questo, poi fai quest’altro. È un attimo che vai in burnout fino a che non ti fermi un secondo e ti chiedi «ma è necessario tutto questo?».

E tu come gestisci la pressione?  Cosa ti aiuta ad allentarla?

Ti dicevo che sono spiritual. Ho diverse stone, pietre. Ognuna di esse ha un suo significato. Quando mi sento sotto pressione, oppure sono ansiosa, o una roba del genere, prendo questa qua, dovrebbe essere aulite. Quando mi stresso pensando «ma ce la farò a far questo», oppure mi preoccupo per l’affitto del prossimo mese, lei mi aiuta ad allentare la pressione. Mi ricorda di essere più presente nel qui ed ora, mi dice: stai tranquilla, stai bene, sei viva, si sistema tutto.

Forse in questo ti aiutano il tuo senso dell’ironia e l’umorismo, presenti anche nelle tue canzoni più rabbiose e provocatorie. Non hai paura che ti prendano troppo sul serio? O forse sono io che non ho capito niente e devo prenderti sul serio?

Ci sta che non lo colgano. Alcuni lo capiscono, altri no, ma cosa posso farci io? Pazienza. Certe cose non sono per tutti, you know what I’m sayin’? È chiaramente ironico, anche bello che ci sia gente che non lo capisca e abbia un’immagine sbagliata di me nel proprio cervello. I don’t care, anche perché alla fine solo io so cosa intendo veramente raccontare.

A Roma ce la caviamo dicendo “sticazzi” e la chiudiamo lì.

Wow, bello. Bello come lo dite.

Rimanendo in ambito musicale il mondo del dell’hip hop e del rap è a prevalenza maschile. Da donna come ti sei trovata all’inizio e ora come senti di esser percepita all’interno di questo mondo?

È una questione complessa ed è difficile da trattare perché da una parte, tra rapper, c’è una competizione spietata, soprattutto tra gli uomini. Dall’altra c’è il pregiudizio di alcuni ascoltatori verso una donna che fa rap e hip hop. A volte arrivano commenti non proprio piacevoli e quelli che ti danno più fastidio sono quelli che dicono «ah però, complimenti, per una donna rappare così». Perché, cosa ti aspettavi? Siamo ancora poche, ma è importantissimo andare avanti per aprire la strada a chi verrà dopo di noi.

Che poi anche il mondo del rock viveva, ed in parte vive ancora, il paradosso di proporsi come forza progressista e rivoluzionaria, ma profondamente maschilista nella sua struttura profonda. Le donne che emergevano all’interno di una band o come rockstar si sono contate sulle dita di una mano. Le restanti erano confinate quasi esclusivamente al ruolo di groupie. In una categoria a parte, poi, la più odiata di tutte: Yoko Ono.

Adesso che hai chiamato in causa il mondo del rock mi sono ricordata che la prima band che ho iniziato ad ascoltare sono state le Runaways di Joan Jett, pietre miliari per il rock femminile e il movimento rriot girls. Le adoro, ‘Cherry Bomb’ è uno dei miei pezzi preferiti. Vedi quanto è importante il modo di rappresentare qualcosa? Quando scoprii la storia delle Runaways pensai «ma guarda che spettacolo queste, hanno lasciato un segno». Hanno avuto anche loro dei problemi quali le dipendenze, ma è stata comunque una figata. E questo ha contribuito a darmi una spinta nel dirmi «dai, provaci anche tu!».

Vivi a Londra da quasi dieci anni e lì ti sei laureata in “Imprenditoria Musicale”. Il rapporto tra industria musicale e artisti è diventato scottante. Nell’immediato post Sanremo diversi artisti, Sangiovanni su tutti, hanno dipinto un quadro non idilliaco; compressi, inseriti in una catena di montaggio, schiavi dei numeri, costretti a sfornare in continuazione singoli da numeri altissimi. Conseguenza: livelli di stress sempre più alti, malessere psicologico, frustrazione e, come nel caso del cantautore di Vicenza una dichiarazione di addio alla musica fino a data da destinarsi. Come ti collochi all’interno della diade industria/artisti?

Io sto dalla parte di questi ultimi, perché è quello che faccio e che sono. L’industria musicale oggi è satura: tutti fanno musica e c’è una competizione e selezione altissima. Penso che tra qualche decade guarderemo a ciò che sta succedendo oggi con gli occhi critici degli studiosi, ma è una situazione assurda. Apparentemente è più facile farsi ascoltare ma in realtà è difficilissimo, perché siamo sommersi di musica. Ci sono tantissimi artisti che hanno cose da dire e quando entri all’interno del meccanismo del music business diventa anche peggio. Ti senti sempre come se possa arrivare qualcuno a prendere il tuo posto e lavorare così ti lascia una brutta sensazione. Se non fai uscire sempre delle hit allora non sei “buono” e vieni messo su uno scaffale come soprammobile. Sei spremuto al massimo, è quello che ho visto accadere a persone vicino a me che hanno fatto molto di più di quello che finora ho fatto io. Non è una cosa healthy, non è salutare. Ma la cosa che più mi sconvolge è che mi hanno raccontato che dieci o venti anni fa era ancora peggio. Mi dicono ogni giorno «voi la state avendo più comoda».  Gli artisti dovrebbero avere il coraggio di alzare la voce quando necessario.

Lina Simons
Lina Simons

Che differenza hai trovato tra l’industria italiana e quella inglese?

Credo che nell’industria inglese ci sia più apertura nello sperimentare in primis perché ci sono profonde differenze tra i due pubblici. Il pubblico d’oltremanica è più pronto a riconoscere ed apprezzare il talento più “rozzo”, se così possiamo definirlo, anche se fa qualcosa di poco familiare con i gusti che in un dato momento vanno per la maggiore. E conseguentemente agisce anche la discografia. In Italia, ahimè, ci si scontra ancora oggi con il nepotismo a meno che non si sia fortunati come lo sono stata io ad incontrare le persone giuste. E poi l’industria italiana al confronto è piccolissima perché, se pensi alle persone che nel mondo parlano e possono comprendere le canzoni in italiano è evidente quanto possano essere limitati i numeri del business.

Immagina che io non sappia nulla di musica. Raccontami in poche parole “P.A.S.”, il tuo disco.

È un miscuglio di stili e sperimentazioni di un’artista con una personalità molto colorita. In “P.A.S.” racconto la mia storia crescendo da donna nera italiana. Mostro alcuni aspetti di me stessa, dalle cose più tristi alle cose più belle, al mio percorso di emancipazione e autonomia economica. È un disco in cui è racchiusa la mia personalità e sperimento con diversi stili, dall’afrobeat all’hip hop, so yeah.

Posto che ogni figlio è bell a mamma soja, ti chiedo di scegliere le canzoni che ti risuonano di più nell’anima e che ti senti addosso più delle altre.

È facile, ce le ho: la prima è ‘In The Block’, la seconda è ‘Nuda’, la terza è ‘AAAnimal’. ‘In the Block’ è il primogenito e con lui ho un legame speciale. Inoltre, l’ho scritto in napoletano, di getto, è una sorta di storytelling e ci tengo tanto. ‘Nuda’ perché la base che ha fatto Gransta MSV è uno spettacolo. È un brano che parla di rivalsa verso una precisa tipologia di uomini. In esso affermo che nonostante sia una donna io tengo «cchiù testosterone ‘e te», sebbene tu dica di essere tanto maschio – «you know much you wanna be man all overt that». In ‘AAAnimal’ affronto il tema della salute mentale e lo faccio in modo semplice e spontaneo: proteggiti, protect yourself. Fa’ qualsiasi cosa sia necessaria per prenderti cura di te, non preoccuparti di null’altro. Per star bene devi evitare di parlare con una data persona? Fallo senza dare spiegazioni. Pensi possa farti bene andare da uno psicologo? Vai. Bitch, do it! Prenditi cura di te stessa. Perché ci sei solo tu.

Ti racconto una storia, quella di un calciatore per caso, poeta e scrittore per vocazione. Era nato nello stesso paese di Pasolini, amico intimo di Piero Ciampi. Talento puro, giocò anche in serie A: si chiamava Ezio Vendrame. Un giorno, durante una partita, si presentò da solo davanti al portiere, lo dribblò con una finta per entrare in porta con il pallone. Giunto però a pochi metri dalla linea di porta, si fermò, tornò indietro dando modo al portiere di recuperare. Provò a dribblarlo di nuovo, ma il portiere gli prese il pallone.
Quando i giornalisti gli chiesero conto di quella follia rispose che «dopo averlo superato, ho pensato che nella vita tutti hanno diritto a una seconda possibilità. Il portiere oggi è stato bravo nel coglierla».
Vivi a Londra ormai da dieci anni, hai mai pensato di poter dare una seconda possibilità all’Italia?

Già gliela sto dando adesso, sto rivalutando tante cose dell’Italia. Lo ripeto tante volte, quando dico che veramente voglio migliorare il rapporto con l’Italia sono seria e lo faccio anche con la musica. Le mie canzoni mi mettono davvero in contatto con le mie origini. Sono di Pozzuoli, scrivo e canto in napoletano e tutto questo è un modo per sanare il legame con questo paese, che poi alla fine is cute, è davvero bel posto. Vedo l’Italia un po’ come un piccolo bambino che deve crescere, maturare e imparare ancora tante cose. Quindi diamo tempo al tempo e poi anche io non sono perfetta: let see, let’s go, let’s keep, vediamo, vedremo cosa accadrà.

Sul tuo profilo Facebook hai dato appuntamento ai tuoi fans sul grande schermo.

Oh sì, ma non posso dire di più. Ho già detto tanto quando ho fatto riferimento al grande schermo, se dico di più davvero me troncan’ i ccosc’. È qualcosa che accadrà entro l’anno, per cui occhi0 ai miei canali social. Stay tuned.

E invece appuntamenti live?

Sono in costante aggiornamento. Del TedX abbiamo detto e il 30 giugno sono a Paestum, ma già mi parlano di altre date nel mezzo. 

Stavolta l’ultima per davvero: mi daresti la ricetta del Jollof Rice, che hai messo al primo posto nella classifica dei tuoi piatti nigeriani preferiti?

Certo, vuoi la ricetta vegetariana o quella con la carne?

Le chiedo entrambe e finisce come meglio non poteva essere. Vi piacerebbe le pubblicassi, ma le tengo non vado certo a rivelare i segreti della chef.
Ah, a proposito del Leone e dell’aver sempre ragione, alla fine ha ammesso di non essere perfetta; forse proprio per questo si avvicina ad esserlo davvero.


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