«Nessuno si sente parte della collettività»: intervista con i Luminal
Sabato 6 settembre eravamo nel piccolo borgo di Varignana, sulle colline a sud della via Emilia tra Imola e Bologna, dove ormai da 9 anni i giovani della zona organizzano il festival ‘Musica Spinta’.
Nei due giorni di rassegna quest’anno si sono alternati sul palco Gajè, Black Beat Movement, At The Weekends e Luminal.
Ed è per intervistare quest’ultimi che siamo qui – non solo per birra, piadina e porchetta.
Attiva dal 2009, la band romana ha ultimamente modificato formazione e stile, e con il terzo album “Amatoriale Italia” rimettono tutto in discussione: proviamo a capire perché.
Parliamo del vostro ultimo lavoro.
“Amatoriale Italia” è un disco che colpisce per vari aspetti: vede una formazione diversa dai precedenti lavori, è un disco molto diretto ed è punk rock senza chitarre.
E somiglia a un concept album.
Raccontateci, come è nato?
Carlo Martinelli: Prima di questo disco eravamo una band diversa: un gruppo rock molto più tradizionale con determinate influenze tra musica italiana e straniera. Ad un certo punto c’è stato uno sconvolgimento, sia all’interno delle nostre vite sia nella band.
Sconvolgimento che ci ha portati a dire “ok d’ora in avanti facciamo solo ciò che ci piace fare”, che nello specifico in quel periodo era sinonimo di “vogliamo spaccare tutto, vogliamo fare una cosa diversa, violenta”.
Qualcosa che ci aiutasse a raccontare più quello che siamo e quello che viviamo. Questo è “Amatoriale Italia“: un racconto personale, che poi si rispecchia in una dimensione più grande e nazionale.
“Amatoriale Italia” è talmente diverso dai lavori precedenti che si potrebbe definire quasi il vostro primo disco.
Alessandra Perna: Sì, è a tutti gli effetti il nostro primo disco.
Io prima cantavo e suonavo la chitarra, adesso invece suono il basso, lo strumento che ho sempre voluto suonare.
Lo strumento con cui ho trovato la mia dimensione ideale.
Quando sento suonare un basso distorto la felicità mi assale, è come se fosse il suono di quello che ho nel cervello. Alessandro è il nostro batterista, ed è il genere di batterista puro che abbiamo sempre cercato: il suo modo di suonare varia dalla musica elettronica all’hip-hop, si incastra perfettamente con l’idea dei nostri pezzi.
Lui è il tipo di batterista che si mette al servizio della canzone.
“Amatoriale Italia” in realtà non è un concept album, in quanto non è un racconto organico, ma ha un’idea chiara di fondo che è fondamentalmente il meccanismo spicciolo dell’indie italiano e il meccanismo spicciolo che sta alla base di tutte le altre cose in Italia. Dal lavoro al posto pubblico, all’amicizia, l’amore tra persone, il potere dello stato…è stato difficile intrecciare il tutto per fare il disco, ma ci siamo riusciti.
L’idea poi di usare solo basso e batteria è stata una scelta dovuta, una necessita che aiutasse a dare la forma giusta al contenuto.
C.M.: La chitarra avrebbe addolcito il tutto e non ci piaceva.
Amatoriale Italia è un disco di denuncia, un attacco diretto alla tv spazzatura e alla disinformazione di massa.
Cosa vi ha spinto a parlare di questo?
A.P.: Purtroppo se dici “L’Italia fa schifo” tutti ti dicono “Hai ragione”.
Se invece dici “L’Italia fa schifo” per la serie di motivi di cui parlavamo prima, allora susciti clamore e risentimento.
Nel trattare questi argomenti, ovviamente ci siamo chiesti in prima persona “Cosa abbiamo sbagliato? Ci siamo rintanati in noi stessi? Abbiamo avuto rapporti difficili con altri musicisti?”.
C.M.: “Non abbiamo avuto il coraggio di dire determinate cose?”.
In realtà, poi, questo dovrebbe essere il rock.
Questo dovrebbe fare, dire quello che non va senza passare per i soliti luoghi comuni e facendo prima di tutto un proprio esame di coscienza.
Bisognerebbe riuscire a ripulirsi da tutto ciò che di sbagliato la nostra cultura ci ha inculcato, riuscire ad essere liberi e coscienti nel personale per poter poi rendersi conto che intorno le cose cambiano.
Purtroppo noi siamo idealmente convinti a seguire un leader: accadeva con Mussolini e con la Democrazia Cristiana, accade con Berlusconi.
E non riusciamo a renderci conto dei nostri errori perchè deleghiamo sempre a qualcun’altro.
La band si forma a Roma ma siete tutti nati in luoghi diversi: come vi siete conosciuti? Come siete diventati un gruppo?
A.P.: Io e Carlo ci siamo incontrati in una sala prove, ci siamo conosciuti nella maniera più classica possibile.
Alessandro invece ha risposto ad un annuncio che avevamo postato su Facebook dopo lo scioglimento dei vecchi Luminal.
Era un’annuncio che richiedeva determinate peculiarità e caratteristiche, concepito apposta per fare selezione all’ingresso.
Lui rispose all’annuncio azzeccando in pieno i nostri gusti musicali ed il nostro modo di intendere la musica.
Pensavamo ci stesse prendendo in giro, invece poi ha dimostrato di essere veramente in perfetta sintonia con noi.
Questa vostra provenienza variegata ha inciso sui testi e sulle storie raccontate in essi? Penso a ‘Stella Carlo‘ piuttosto che ad ‘Antonio.‘.
C.M.: Roma è il primo punto di arrivo per chi dal sud si sposta per andare all’università. ‘Stella‘ racconta della classica coinquilina universitaria di un’amica, arrivata a Roma per fare la ballerina al programma Amici ed incalzata da una madre assatanata di successo. È stato un incipit che ci ha spinto a farne una storia e un testo.
Altra cosa che ci ha colpito ascoltando Amatoriale Italia è stato il dosaggio dell’armonica nei vari pezzi.
C.M.: In realtà è uno strumento che ho imparato a suonare e amare per questo disco e che sto perfezionando durante i concerti. Le armoniche hanno qualcosa di ancestrale ed una capacità melodica incredibile…l’unico problema rimane che le perdo ad ogni concerto.
Attualmente in Italia abbiamo una non-politica ed una totale apatia verso questo mondo da parte delle nuove generazioni.
Cosa pensate a riguardo?
C.M.: Accade perché nessuno si sente parte attiva della collettività.
Io per primo, per esempio.
E’ un difetto, un errore che riconosco, ma se da una parte hai uno Stato che ti tratta malissimo dall’altra hai una popolazione che non riesce a risolvere il problema.
La situazione è talmente asfittica che ormai nessuno crede più in niente: questo è ormai parte del credere comune di questo tempo.
Non si riesce a credere più in niente e l’idea di mettersi a fare qualcosa in prima persona, viene subito aggredita da chi dice “Non lo puoi fare, non ce la farai mai”.
A.P.: In realtà la situazione è molto più complicata di quello che sembra.
È un problema storico legato sicuramente al DNA degli italiani, anzitutto per il fatto che non siamo mai stati uno Stato e tutti quelli che hanno provato ad unificarci hanno fallito.
Di fatto c’è sempre stata di mezzo la Chiesa, che ad oggi sembra essere l’unica cosa in grado di unire.
I cattolici sono l’unico gruppo che in qualche modo si rende socialmente utile nel bene e nel male (quello che fanno, o non fanno, chi se ne frega).
Hanno le loro battaglie e i loro momenti di collettività, ed oggi con il loro nuovo Papa e il loro grandissimo ufficio stampa sono anche tornati prepotentemente in auge.
C.M.: Qui in Emilia avete avuto il comunismo, ma anche quello è stato una cosa molto complicata che insieme a tutte le altre cose ha ridotto l’Italia intera ad un groviglio generale assurdo.
A.P.: E’ un insieme di tante piccole cose sbagliate, c’è la necessità di fare un reset completo.
Resettarsi è la cosa più dolorosa che si possa fare, perché devi rinunciare alla tua libertà, al tuo ego…a ciò che ti è stato insegnato. In Italia, alla fine, ci hanno insegnato purtroppo a ragionare da piccolo borghese: anche noi lo facciamo, noi che non ci sentiamo diversi da altri milioni di persone.
Bisognerebbe che tutti noi facessimo dei mesi rinchiusi a studiarci e cercare di capire dove sbagliamo.
Oppure bisognerebbe avere un governo talmente illuminato che riesca a riabbracciare tutti e che riesca a fare ciò che nessuno finora è stato in grado di fare.
C.M.: Un governo forte ma buono.
Il problema è che passare attraverso un reset comporta tantissimo dolore e ci si arriva con una povertà mostruosa e altre cose pesanti.
D’altronde, le rivoluzioni nascono solo quando sei alla fame, come accade in altri posti del mondo tipo Sud America.
State portando in giro questo disco che ha al suo interno comunque un’idea diversa e particolare: che risposta state avendo dal pubblico?
Le reazioni sono diverse a seconda della zona in cui suonate? È una scelta che ha pagato?
A.P.: Sì, la scelta ha pagato.
Abbiamo molto feedback dalle zone provinciali, ad esempio a Latina o nelle Marche, dove troviamo persone più libere mentalmente.
Forse perché sono state le più oppresse e stiamo avendo tanti riscontri positivi da parte di musicisti italiani, musicisti importanti che ad oggi sono diventati nostri fan, quali Teho Teardo ed Afterhours.
C.M.: Noi siamo loro fan e loro sono nostri fan: questi riscontri per noi sono importantissimi.
Ci piacerebbe sapere come è nata la vostra collaborazione con gli Afterhours nella riedizione del loro Hai Paura Del Buio?.
A.P.: Il nostro produttore stava collaborando con loro proprio sul rifacimento di HPDB? e ci chiese di fare una nostra versione di Elymania per farla sentire agli Afterhours.
C.M.: Pensavamo che sarebbe stata al massimo inserita come bonus track, invece poi siamo entrati nella track list ufficiale del disco e ne siamo molto felici.
Quali pezzi del disco pensate siano riusciti meglio?
A.P.: ‘Punto G‘ fatta da Bachi Da Pietra è perfetta oltre che bellissima.
C.M.: Concordo con ‘Punto G‘ e aggiungo che a me sono piaciuti anche pezzi un po’ più suicida, come il pezzo fatto da Bennato e Joan As A Policewoman.
Mi hanno colpito i pezzi più strani e sperimentali del disco.
Voi venite da Roma, dove le radio e le TV indipendenti abbondano: c’è ancora posto per il rock emergente in TV e in radio?
A.P.: Sì, indubbiamente.
Ci sono tanti locali e webzine e le radio universitarie sono molto attive. Ci sono radio che passano musica rock come Radio Città Aperta, Radio Rock, Radio Città Futura e Radio Popolare, e tante radio che fanno comunque programmi di cultura.
C.M.: In realtà penso che adesso come adesso, Roma sia tra le città più attive a livello musicale sia per quantità di locali che per situazioni favorevoli alla musica.
Come tante altre band siete molto attivi in rete sia per la promozione del vostro disco sia riguardo la comunicazione con i vostri fan.
Come giudicate le nuove tecnologie e l’uso dei social?
A.P.: Qualsiasi cosa stupida la postiamo [ride, ndr].
In realtà [Facebook] è uno strumento che andrebbe preso per quello che è: un media utile per promuovere le proprie cose senza eccedere e cercando di creare una linea editoriale che ti rappresenti sul serio. Sono completamente in disaccordo con chi usa profili privati per raccontare la propria vita, anche perché è chiaro che se lo stai scrivendo non lo stai facendo.
Internet e Facebook fanno parte della nostra vita, non c’è niente di male nel farsi un selfie o nello scrivere: l’importante è ricordarsi che l’ossessione è una cosa sbagliata.
Abbiamo letto da più parti che le vostre sono performance molto istintive e crude.
Com’è il vostro rapporto col pubblico durante i live?
C.M.: In realtà da un po’ di tempo a questa parte la dimensione live è andata peggiorando, nel senso che il concerto ora è sempre meno incentrato sul “rendere la canzone” e più sul “adesso spacchiamo tutto”.
Cerchiamo il più possibile di rendere in maniera fisica quello che è il disco.
Questa cosa divide in modo positivo il pubblico: c’è una parte di persone che si allontana terrorizzata, e una parte di persone che si lascia invece coinvolgere.
A.P.: Vogliamo fare musica faticosa, sia da suonare che da ascoltare. Secondo noi è importante creare quel distacco che non c’è più col pubblico, perché se facciamo una cosa del genere comunque non ti allontani.
È come se io ti dessi un cazzotto: ti impongo di reagire.
C.M.: Qualcosa che ti faccia dire “qui sta succedendo un concerto”: noi vogliamo fare questo.
È stata dura arrivarci, ma ora ci siamo. Non vogliamo fare come tanti colleghi che dal vivo si limitano a svolgere il compitino di riprodurre i pezzi, focalizzandosi solo sul pedale da usare o sull’aspetto che hanno mentre stanno suonando il pezzo.
E’ una serie di ansie da prestazione dovute ad insicurezze ed altre cose dalle quali bisogna liberarsi.
Il 2014 per voi è stato un’anno molto intenso: cosa vi ha colpito di tutto questo tempo in giro per lo stivale?
A.P.: È stato molto bello, soprattutto la seconda parte del tour.
Abbiamo suonato ai concerti estivi a Villa Ada (Roma) con i Tre Allegri Ragazzi Morti e al Rock In Roma con gli Afterhours.
Concerti molto intensi e che ci hanno dato e tolto nello stesso tempo.
Interagire con il pubblico è stato difficile e bello nel bene e nel male.
Cosa vi aspettate per il 2015? Avete già materiale inedito su cui lavorare?
A.P.: Abbiamo un paio di pezzi quasi pronti e altri 7 potenzialmente validi: sarà un lavoro molto più faticoso da cantare e da suonare, sicuramente ci saranno meno atmosfere rarefatte. Ci piacerebbe un lavoro dritto, lineare dall’inizio alla fine.
C.M.: Falliremo [ride, ndr].
No, dai…fallire alla fine è positivo, perché poi si è in grado di cambiare completamente strada.
Il prossimo appuntamento con i Luminal è al festival di Hai Paura Del Buio? che si svolgerà il 4 ottobre a L’Aquila.