I Hate My Village: l’arte di fuggire regole e forme
I Hate My Village e “Nevermind The Tempo”: quattro chiacchiere con il supergruppo di casa nostra sulla loro ultima creazione
«Un disco sgrammaticato, storto, visionario, allucinato», parola loro
Adriano Viterbini (Black Friday, Bud Spencer Blues Explosion, ON), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) non hanno bisogno di troppe presentazioni. Separati sono tanto, insieme sono gli I Hate My Village, da poco usciti con l’ultima loro creatura.
“Nevermind The Tempo” è una sintesi sregolata dell’elogio dell’errore, dell’imperfezione, dell’approssimazione, della liberazione dallo schematico, dal cadenzato e dallo scadenzato. L’istintività di quattro personalità, quattro elementi diversi. Idrogeno, Azoto, Ossigeno e Carbonio, che collidono, implodono, esplodono. Una nucleosintesi stellare che genera un mosaico sonoro disallineato e al tempo stesso assemblato alla perfezione.
Scambio con loro qualche battuta tra la fine del live set degli I Hate My Village al SuperAurora e la cena che sta per essere servita in tavola. A rispondere sono Adriano Viterbini e Fabio Rondanini.
Stasera alzo le mani, sarei in difficoltà se dovessi raccontare un vostro live a chi non vi conosce. Prendi Fela Kuti, aggiungi il Robert Fripp dei King Crimson di “Discipline” e “Beat” sotto acido, poi una passata di John Zorn, i Nirvana, shakeri bene e non è detto che tu ci sia arrivato. Per cui chiedo a voi: chi sono gli I Hate My Village?
Forse è più interessante sapere chi non siamo. Non siamo una band che, vuoi per indole, vuoi per approccio, vive la musica come uno strumento per fare un colpo gobbo o per scalare le classifiche. Ci sentiamo di essere tante cose in cui ci riconosciamo e se quello che ascolti ti piace e ti fa venire in mente tutto questo, a noi fa solo piacere. Una componente importante, oseremmo dire fondamentale, del lavoro del musicista quello di rischiare, di esplorare sentieri sconosciuti e non battuti. E soprattutto di andare sempre e costantemente in salita, fino alla fine, fino a quando non muori. I riferimenti che hai citato ci stanno, sono tutte cose che abbiamo ascoltato parecchio. Poi alla fine il disco è una creazione che nasce inizialmente per dar voce a qualcosa che abbiamo dentro di noi
Il progetto I Hate My Village parte da voi e poi si è allargato: come è avvenuto l’incontro con Alberto e con Marco?
I dischi e il progetto I Hate My Village crediamo siano stati un pretesto per conoscerci meglio. È un processo che non si è esaurito, sta andando avanti e ogni volta aggiungiamo un pezzo. Nasce da un’amicizia precedente, Adriano aveva già lavorato con Marco, io stesso conosco Marco da diversi anni. Tutto è nato da un disco di Adriano (“Film O Sound” n.d.r,). In particolar modo è in un brano, ‘Tubi Innocenti’, in cui puoi ritrovare il germoglio degli I Hate My Village. Durante le registrazioni io e Adriano ci divertivamo a jammare, a lasciar fluire idee che poi ci appuntavamo. Lì è nato un incantesimo tra noi. Quando abbiamo dovuto scegliere da chi farcelo produrre, siamo andati da Marco e più avanti, nella realizzazione è entrato anche Alberto.
I vostri pezzi sono un vulcano di suoni e idee. Come lavorate in fase di composizione?
La regola che abbiamo è quella di sfuggire a regole o formule. I dischi che abbiamo fatto finora sono nati in modo disordinato. Un disordine organizzato dal quale nascono idee, tracce, spunti sui quali lavorare. Salviamo nel telefonino qualcosa che nasce sul momento e ci palleggiamo l’idea tra di noi. O arriviamo in studio con uno strumentino particolare comprato chissà dove e vedere cosa ne può venir fuori, o anche con meno strumenti del solito.
E poi?
E poi ti vedi e prendono vita queste jam, che hanno una direzione di fondo, uno scambio e un presupposto di partenza. Anche i titoli dei pezzi descrivono un presupposto di partenza, che crea già un’ambientazione sonora. Ad esempio, ‘Come una Poliziotta’ ha preso vita da riferimenti alle sonorità di Joan As A Police Woman. Ascolti, spunti, idee, ispirazioni di fondo che ci eravamo già scambiati prima di entrare in studio. Ma poi c’è altro, non siamo solo una jamming band, soprattutto in “Nevermind The tempo”.
Cosa accadrà in futuro?
Continuiamo il tour, è la vita del musicista. E siamo aperti al futuro senza adagiarci e crogiolarci nel presente. Non ci sentiamo una superband, ci divertiamo e finché ci divertiremo saremo qui a rompervi le palle.