H.O.T.: nella musica servono passione, coraggio ed incoscienza
Lo scorso ottobre è arrivato in Italia con il suo “The Hell Not Hallelujah Tour” il reverendo Marilyn Manson per una data unica a Firenze, alla ObiHALL Arena.
In apertura alla tanto attesa (quanto irriverente) star internazionale si sono esibiti gli H.O.T..
Anzi, gli Hands Of Time, a voler essere precisi, ma anche scrivendo il loro nome per esteso mi son chiesta chi fosse questo power rock trio (del quale personalmente ignoravo l’esistenza).
Incuriosita, ho cercato del materiale audio online e dopo pochi ascolti su Spotify ho pensato si trattasse di una band ingaggiata per l’intero tour, una di quelle che seguono l’artista in ogni sua tappa (un po’ come l’accoppiata Black Sabbath e Rival Sons, per dire).
Qualche giorno prima del concerto, invece, la piacevole scoperta grazie ad un amico: il trio degli H.O.T. è italianissimo, cosa che avrei saputo se solo mi fossi informata visitando il loro sito ufficiale (maledetta pigrizia!).
Sono parecchie le cose che colpiscono di questa band ed anche chi non ha assistito al concerto di Firenze può cercare un qualunque video live su Youtube per farsene un’idea.
La presenza scenica, la famigliarità col palcoscenico e la naturalezza nel regalare al pubblico uno show degno di esser così chiamato sono elementi importanti, che con gli H.O.T. diventano però caratteristichee costanti.
Frutto di una straordinaria sinergia, il sound del gruppo piace e convince, ma soprattutto, come già anticipato, inganna: ascoltandoli risulta difficile pensare a qualche affinità con la musica mainstream di casa nostra, ed è questa un’osservazione che loro per primi condividono a voce alta.
«La differenza principale fra noi e l’estero, e ce n’è, sta nel modo in cui viene valorizzata e considerata la musica ed il rock, soprattutto».
Una falla, questa, che non riesce a sanarsi nemmeno con la forte presa di coscienza degli ultimi due anni, che hanno vissuto in generale la chiusura fisica di molti luoghi-simbolo non solo per la musica live ma, come dicono i ragazzi, «per la cultura in generale».
Una storia che comincia lontano (2008) e che vi ha portato da Orvieto fino agli Stati Uniti: quanta determinazione serve ad una band per suonare in giro per il mondo?
Non quantificabile, probabilmente. Se diciamo “tantissima” non riusciamo a renderne l’idea, credici. Ed oltre alla determinazione serve anche tanta passione, un bel po’ di coraggio ed un pizzico di incoscienza.
È un amore, sotto tutti i punti di vista.
La vostra carriera è costellata da importanti collaborazioni: siete stati opening ai concerti di Dave Evans e l’ultimo grande evento vi ha visti protagonisti lo scorso ottobre al live di Marilyn Manson: come nascono queste occasioni?
Queste occasioni, come tante altre, non sono che il frutto di quanto detto prima.
Arrivano all’improvviso e nei modi più strani, e, spesso e volentieri, nei momenti in cui credi di non farcela più. Ma è credendoci, insistendo, senza abbattersi mai, che alla fine l’occasione arriva. Nello specifico, l’opening act a Manson è frutto del nostro tour negli USA: siamo partiti senza un soldo, senza nemmeno sapere né dove, né come saremmo andati, ma consci del fatto che avremmo suonato nei locali più importanti di Los Angeles, come il Whisky A Go Go, o il The Viper Room, o il Rainbow. Ed è proprio lì, al Rainbow, mentre cercavamo di vendere qualche biglietto per nostri show, che abbiamo incontrato quello che ora è a tutti gli effetti il nostro manager, Sauro Ciccola, già conosciuto negli ambienti della musica per essere il guitar tech di pezzi da 90 come Eagles, Bon Jovi, Michael Jackson e Marilyn Manson.
Sì, avete capito bene: italiano, di Perugia (a mezz’ora da casa nostra) incontrato a Los Angeles. Abbiamo scambiato due chiacchiere, ci siamo presentati e alla fine lo abbiamo convinto a venirci a sentir suonare al Viper, qualche sera dopo.
Da lì in poi è scattata la magia: ci ha proposti a Tony Ciulla, manager di Marilyn Manson, a cui siamo subito piaciuti molto, e ci è stata data, infine, l’opportunità di cui tutti ormai sono a conoscenza.
Giusto per puntualizzare, non ci è stata chiesta neanche una lira: nella “musica”, quella vera, quella che conta, se vali vieni preso e portato dove ti spetta e non ti viene chiesto niente. Purtroppo, in Italia come in altri posti, molte giovani band pagano degli slot per aprire concerti di gruppi più conosciuti: questo non va bene, anzi, se possiamo permetterci, vorremmo dare un consiglio a tutti quelli che si ritrovano in queste situazioni.
Se sapete di valere e credete ciecamente in quello che fate, sappiate che in tutto il mondo ci sarà sicuramente qualcuno che crede in voi e che vi darà la grande occasione.
Non fermatevi alle promesse fatte in cambio di soldi, la strada più “corta” non è mai la più semplice! Se non fossimo andati in California niente di tutto questo, probabilmente, sarebbe successo. Forse sarebbe accaduto qualcos’altro, certamente, ma non questo.
Ecco, in questa storia c’è tutto il senso di quanto si diceva prima.
Parliamo del pubblico: avendo suonato anche all’estero, tra quello italiano e quello straniero notate delle differenze nelle reazioni alla vostra musica?
Un po’ ce ne sono, ovviamente. Ma il pubblico italiano non è affatto male, anzi: il fatto che cantiamo in inglese probabilmente non aiuta la “vicinanza” fra artista e consumatore, soprattutto tenendo conto della bassissima percentuale di conoscenza delle lingue straniere con cui abbiamo tutti i giorni a che fare, nel nostro bel paese.
Tolto questo, gli italiani sono un bel pubblico senza dubbio. La differenza principale fra noi e l’estero, e ce n’è, sta nel modo in cui viene valorizzata e considerata la musica ed il rock, soprattutto. Potremmo dire “la cultura”, in generale.
Le falle culturali che viviamo, ahimè, sono sotto gli occhi di tutti, ed in questo gioco al massacro la musica non fa certo eccezioni. Ma è nel sistema, o meglio, cambiandolo, per quanto difficile possa sembrare, che troveremo una soluzione a questo come a mille altri problemi. E qui si inizia a sognare di brutto.
“Time To Think pt1”, il vostro ultimo lavoro discografico: oltre alla potenza e al coinvolgimento dei suoni, qual è il messaggio che volete far arrivare ai vostri fans?
Riallacciandosi discorso precedente, è ora di cambiare. Bisogna iniziare a pensare, ragionare, aprire gli occhi. La nostra società si regge su dettami capitalisti filo-fascisti e terroristi sviluppati e imposti da gruppi ristretti di persone abbienti per mantenere invariato lo status quo, a discapito dei popoli, obbligati a vivere una vita già scritta, e sembrano troppo stanchi ed alienati per cercare di ribellarsi. Ed è proprio qui che sta la magagna: è ora di alzare la voce, di sollevarsi, di combattere per la libertà di cui tutti siamo stati privati, oggi giorno, per poter, finalmente, cambiare. E questo va fatto per amore di se stessi e degli altri, del mondo e delle cose, degli animali e dei sogni: è l’unica, vera, nostra missione.
Questo, in poche righe, racchiude un po’ il pensiero generale che ha dato luce a “Time To Think pt1”.
La scelta dell’inglese come lingua nelle vostre comunicazioni (penso al vostro sito internet, ad esempio) la vedo come una continua finestra aperta verso l’estero. Non rischiate però di allontanare in qualche modo “il pubblico di casa”?
L’inglese, come dicevamo prima, può allontanare i nostri fan autoctoni, vero, ma d’altro canto, ci apre le porte verso il mondo. L’inglese è la lingua internazionale per eccellenza, e quindi, permette di comunicare con un ampissimo gruppo di persone. Fra pro e contro, per ora, hanno vinto i pro, insomma. E poi, a dirla tutta, il rock in italiano non suona bene come quello cantato in inglese!
Ci raccontate un aneddoto che ricordate con piacere, sulla vostra band?
Ci sarebbe da scrivere un libro….vediamo, potremmo raccontarti di quando a Londra sono riusciti a farci la multa per divieto di sosta con noi dentro il furgone, a dormire.
O di quando, in viaggio fra Los Angeles e Santa Clarita, quasi finiamo dentro perché non sapevamo come considerare il semaforo rosso lampeggiante.
Oppure di quando, a Bolzano, abbiamo finto per gioco di essere americani e tutti ci hanno creduto. Mah, ce ne sono a centinaia.
Di sicuro, il migliore, è quello di quando abbiamo incontrato Sauro….per mille motivi.
Se non avessero scelto la musica, che lavoro avrebbero fatto gli H.O.T.?
(GAB) Ad oggi non saprei… pensare ad un mondo senza musica è praticamente impossibile! Da piccolo ero un bravo nuotatore, una piccola promessa. Dopo qualche podio lasciai, non so per quale motivo. Era destino?
(LEO) Mai pensato, giuro: è da quando ho 9 anni che voglio diventare “qualcuno” grazie alla musica, quindi, non ho lasciato molto spazio al resto. Probabilmente, per come sono fatto, sarei messo piuttosto male se non ci fosse la musica: meno male che c’è.
(WIDO) Sto ancora cercando la risposta.