Archive: il mondo finirà presto
La storia degli Archive inizia a Sud di Londra nel 1994, e da allora molte cose sono accadute.
In questi anni sono nati dischi meravigliosi mentre la band si è arricchita e sviluppata anche grazie a nuovi musicisti arrivati quando altri se ne sono andati.
I suoni si sono evoluti nel tempo: gli Archive hanno osato sperimentando e puntando sul cambiamento sonoro, tanto che ad oggi risulta difficile inquadrare la band guidata da Darius Keeler e Danny Griffiths in un preciso genere musicale.
Questo perché gli Archive amano esplorare nuovi confini, ed è un’attitudine evidente anche all’ascolto di “The False Foundation”, decimo album studio della band uscito quest’anno.
A breve protagonisti di una data unica presso il Fabrique di Milano (26 novembre), abbiamo fatto due chiacchiere con Darius Keeler, uno dei due pilastri della band, per parlare in generale degli Archive di oggi e del loro nuovo lavoro.
Cosa vi ha spinto a tornare in studio per la registrazione del nuovo album?
Non ci abbiamo riflettutto molto, a dire il vero. Abbiamo sempre registrato i nostri album quando ne avevamo la possibilità, non abbiamo mai avuto reali motivi di interruzione tra un lavoro ed un altro.
Come vi sentite all’idea di tornare a calcare i palchi europei?
Ci piace davvero molto andare in tour, ed ogni tour presenta nuove sfide.
Siamo pronti!
“The False Foundation” è il titolo del vostro ultimo album: qual è stata la risposta generale poco dopo la sua uscita?
Questo disco ha suscitato un mix di reazioni, a dire il vero.
Credo che una parte dei fans lo abbia interpretato come un disco abbastanza impegnativo, ma per noi è importante sperimentare a livello di band e cercare, al contempo, di spingere noi stessi: non vorrei mai fare lo stesso album due volte, non avrebbe senso.
Ecco perché sperimentiamo.
Il titolo si riferisce ad un concetto che non è ancora stato spiegato.
Hai affermato che «sta agli ascoltatori la comprensione del significato».
Questa libera interpretazione è voluta per mantenere, forse, qualche “segreto”?
No, nessun segreto da mantenere.
Penso cheil titolo del disco rifletta lo stato del nostro mondo, che sembra sempre più essere costruito e basato su false fondamenta.
Il vostro eclettismo è la caratteristica che vi fa distinguere da molte altre band che, almeno all’inizio, hanno condiviso il vostro DNA musicale.
Penso a pionieri del trip-hop come Massive Attack e Portishead, dai quali vi siete musicalmente distaccati al fine di aderire ad una corrente progressive.
Spero sempre di non restare mai intrappolato in una sola dimensione musicale.
Penso che gli Archive siano progressive e che questo sia ciò che siamo realmente, ma non soltanto a livello musicale: a noi piace realmente esplorare tutte le possibilità della musica e non solo.
La vostra carriera ha attraversato un sacco di partenze e arrivi, avete più volte rivoluzionato la vostra line-up.
Quanto ha contribuito questo al processo di songwriting e negli arrangiamenti?
Chi è il principale autore dei brani?
Siamo tutti responsabili, sia per la musica che per i testi.
Mi piace affermare che sono io a guidare i progetti con diverse persone che vi partecipano, ognuna portando le proprie dimensioni all’interno dei brani.
Questa è una cosa molto importante perché è ciò che permette agli Archive di non ristagnare mai.
E a tal proposito penso ad “Axiom”, la colonna sonora scritta dalla band e diventata poi il loro nono album studio.
Un lavoro particolare e delicato, a partire già dalle basi: non sono stati gli Archive a costruire la struttura sonora per accompagnare un film, ma bensì è accaduto il contrario.
Prima è nato “Axiom”, poi il collettivo cinematografico spagnolo NYSU ha pensato a trasformare i suoni in immagini.
Come consideri “Axiom”?
Io penso sia qualcosa di più di un semplice disco, è qualcosa che ribalta realmente il concetto di colonna sonora: è il cinema a fare da sfondo alla musica.
“Axiom” è stato un lavoro molto speciale per noi, uno di quei progetti che è riuscito sin da subito a percorrere una propria strada. Un evento molto fortunato, credo.
Il cinema è un settore estremamente importante in questo senso, c’è uno scambio continuo che nasce da questo rapporto con la musica: noi abbiamo riferimenti collettivi che arrivano proprio dal cinema, come fonte di ispirazione.
L’album che preferisco della vostra discografia è “Controlling Crowds”, incentrato sul controllo delle masse.
Cosa è cambiato in sette anni?
Penso che abbiamo perso completamente il controllo.
I governi pensavano di poter controllare il Medio Oriente ed hanno solo creato ulteriore caos.
Ci ritroviamo addirittura con Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti d’America!
Il mondo finirà presto.
Il concerto del prossimo 26 novembre al Fabrique di Milano non sarà la vostra prima volta in italia: qualche aneddoto da raccontarci, in merito?
Quel che posso dire è che il pubblico italiano è il più rumoroso!
Il pubblico canta sempre le nostre canzoni ai concerti, dall’inizio alla fine: è una cosa che amo, e non vedo l’ora di tornare a Milano per ripetere ancora l’esperienza.