Yes, il tour delle fiabe
C’è profumo di storia del rock questa sera all’Arcimboldi, un profumo che aleggia persistente nel foyer del teatro. Tra poco meno di un’ora il palco accoglierà gli Yes, la formazione inglese che di quella storia ha contribuito a scrivere diverse pagine, se non capitoli interi. Almeno nominalmente.
Perché quelli di oggi si chiamano ancora Yes, ma di quella formazione storica è rimasto solo il buon vecchio Steve Howe. Ma di questo ne parleremo poco oltre, perché in questo tour i veterani del prog inglese si fanno accompagnare non da un gruppo spalla ma da un vero e proprio museo itinerante, che ha per protagonista Roger Dean, il mitico illustratore che degli Yes ha sostanzialmente disegnato la storia, attraverso copertine che sono entrate di diritto nell’empireo degli artwork più iconici e ricercati che abbiano mai graziato quegli oggetti che, dati prematuramente per obsoleti, sono tornati in auge negli ultimi anni: parliamo ovviamente dei dischi, quegli strani oggetti di plastica nera contenuti in buste di cartone riccamente decorate sui cui solchi appoggiare una puntina, prima di accasciarsi sul divano e godere delle vibrazioni che ne scaturiscono. Opportunamente distribuiti in un’ala del foyer, questi piccoli capolavori di arte illustrativa si parano davanti ai nostri occhi in tutta la loro magnificenza. È bene specificare che non si tratta degli originali ma di stampe serigrafiche di altissima qualità, talmente alta che risulta oggettivamente difficile distinguerle da un’originale, come possiamo capire dai prezzi esposti (improponibili per uno stipendio standard). Sono presenti alcune decine tra illustrazioni più celebri di Roger Dean, e se la gran parte di esse sono relative allo storico connubio con gli Yes, non mancano opere originali ed anche illustrazioni relative ad altre realtà musicali, tra cui come non citare lo straordinario drago che campeggiava nella cover del primo, mitico album degli Asia?
Ci aggiriamo incantati nell’osservare i dipinti, gli studi grafici sul logo, i bozzetti che poi han portato alle rispettive versioni definitive, insomma un tripudio di bellezza e di colori, un’autentica festa per gli occhi. Il tempo però stringe, ci avviamo quindi verso il posto a noi riservato perché nel giro di pochi minuti è previsto l’ingresso sul palco della band.
A proposito della band, potremmo stare ore ed ore a disquisire sulla reale valenza di questi Yes. Come si diceva, tra cambiamenti di line-up, dissidi e scomparse, Howe è rimasto l’unico superstite della formazione classica. In questa incarnazione, Howe si avvale di Geoff Downes, entrato in formazione nel 1980 insieme a Trevor Horn (ovvero quando gli Yes si fusero con i Buggles), per poi uscirne l’anno dopo, quando gli Yes si sciolsero per la prima volta, per andare a fondare con Howe gli Asia. Al basso troviamo Billy Sherwood, bassista abbastanza noto nella scena prog/AoR, già con i Lodgic e i World Trade, e che aveva già fatto la sua comparsa in seno agli Yes in uno dei loro innumerevoli cambi di formazione. La leggenda narra che fu proprio il compianto Squire a indicare in Sherwood il suo sostituito naturale. Alla batteria Jay Schellen, un passato negli Hurricane ma anche negli Asia e nei World Trade insieme a Billy Sherwood. L’ingrato compito di coprire dietro al microfono la posizione che fu di Jon Anderson tocca a Jon Davison, già cantante dei progster Glass Hammer e raccomandato alla band da Taylor Hawkins, che con Davison aveva lavorato in un gruppo tanto valido quanto misconosciuto, gli Anyone (ascoltatevi assolutamente il loro primo album).
In pratica, se non fosse per Howe potremmo praticamente parlare di una tribute-band, cosa che sicuramente sentirete dire dall’ala oltranzista dei fan del gruppo.
Noi siamo qui per ascoltare, quindi accantonato qualsiasi pregiudizio ci accomodiamo sulle comode poltrone degli Arcimboldi e attendiamo che si spengano le luci, e che prenda il via questo concerto che fa parte di una tornata dal nome altisonante: “The Classic Tales Of Yes Tour 2024”, tra l’altro in concomitanza con il cinquantesimo anniversario di “Tales From The Topographic Ocean”.
Finalmente le luci si spengono e dagli altoparlanti parte ‘The Young Person’s Guide To The Orchestra’, l’intro di Benjamin Britten che accompagna l’ingresso in scena degli Yes.
Howe prende posizione alla sinistra del parco, il volto sempre più rugoso non nascondono nemmeno uno dei suoi 77 anni. A destra si posiziona Billy Sherwood, mentre sui supporti rialzati in seconda linea troviamo la postazione di Geoff Downes e la batteria di Jay Schellen. Il centro del palco è naturalmente riservato al front-man, Jon Davison, che, come apre bocca, evoca immediatamente lo spirito di Jon Anderson. E lo fa su un pezzo di “Drama”, ‘Machine Messiah’, che inaugura uno show destinato a ripercorrere tutte le cinque decadi abbondanti in cui gli Yes hanno impresso il proprio marchio nel mondo del rock. E per quanto sia evidente che oggi il comandante in capo sia Howe, e che gli altri ricoprano il ruolo di comprimari, di lusso ma pur sempre comprimari, possiamo avvertire fin dalle prime note del brano come il livello tecnico dei musicisti in campo sia elevatissimo, e quanto l’esecuzione cerchi di riportare alla memoria i fasti di un tempo che fu. È chiaro che un Downes non potrà mai essere barocco come un Wakeman, ma sfido chiunque a criticare la sua interpretazione dei classici del gruppo. Nel corso del primo set, che durerà un’oretta circa, vengono ripescate gemme come ‘Going For The One’, dove spicca la slide guitar di How, le immancabili ‘Time And A Word’ e ‘I’ve Seen All The Good People’ ma anche una sorprendente ‘Don’t Kill The Whale’ da ‘Tormato’ ed una peculiare rivisitazione di ‘America’ di Simon & Garfunkel, talmente yessizzata che ho riconosciuto solo perché avevo sbirciato la setlist delle serate precedenti. In chiusura di primo set, l’ennesimo classico con una meravigliosa esecuzione di ‘Turn Of The Century’.
Dopo una mezz’oretta abbondante la band riappare sul palco e ci regala una sempre gradita ‘South Side Of The Sky’ al termine della quale vengono presentati i singoli musicisti, per poi proseguire con ‘Cut From The Stars’, l’unico estratto da “Mirror To The Sky”, il nuovo album rilasciato a maggio 2023 – un brano carino ma certamente non memorabile, a ulteriore riprova che spesso e volentieri, per queste band storiche pubblicare un nuovo disco rappresenta più che altro una buona scusa per tornare in tour. Ma arriviamo al clou della serata, quando la band ci propone la celebrazione di “Tales From The Topographic Ocean”, giunto oramai al cinquantesimo anniversario.
Nell’impossibilità di proporlo per intero, questi Yes ce lo fanno ascoltare in una versione abridged, sorta di medley in cui fanno la comparsa tutte e quattro le suite di cui si compine l’opera (che, ricordiamolo, sia articolava su doppio vinile). Non potendo metterne in discussione l’esecuzione (mostruosa, come sempre), diciamo che perplime invece il concetto, perché questa versione un po’ Frankenstein snatura non poco il senso dell’opera, soprattutto se ci si è abituati ad ascoltarla per intero. Comunque, a meno di non presentarla nella sua globalità, qualsiasi scelta avrebbe sollevato dubbi; quindi, teniamoci stretto questo consommé di Tales, perché chissà se e quando potremmo goderne di nuovo. Rimane il tempo per un encore, e su questi Howe e i suoi decidono di andare sul sicuro, proponendo in sequenza, sia ‘Roundabout’ che ’Starship Trooper’, due brani-feticcio degli Yes che mandano tutti a casa felici e contenti.
Le due ore (e mezzo, se contiamo la pausa tra un set e l’altro) sono volate via grazie ad una performance strumentalmente impeccabile, e ad una selezione di brani che non può lasciare indifferenti. Quello che forse manca è il calore: tutto bellissimo, perfettamente calibrato ed ottimamente eseguito, ma assolutamente asettico e privo di qualsiasi slancio emozionale, se non quello dei ritornelli che, bene o male, scaldano sempre il cuore dei fan, stemperando quella freddezza che spesso e volentieri ha fatto capolino sul palco degli Arcimboldi.