WOMAD Roma, in bilico tra l’Italia ed il mondo | Giorno 02
WOMAD Roma | Giorno 2
Meticciato.
Inattesa mi balugina questa parola nello schermo della mente durante il set di Joji Hirota e KyoShinDo.
Dal dizionario di Oxford (fa più figo dire così che non ammettere di aver cercato su un noto motore di ricerca) è definita anche secondo accezione figurativa e linguistica come: “combinazione di elementi linguistici e culturali di diversa provenienza e natura”. KyoShinDo è infatti un collettivo di studenti occidentali che studiano il Taiko, i tamburi giapponesi e più in generale tutte le percussioni, eccettuate quelle a clessidra, nell’omonimo dojo situato sulle alture dell’appennino ligure e si impegnano attivamente per divulgarne la pratica.
Joji Hirota è uno dei loro principali maestri, oltre che essere uno dei massimi esponenti mondiali della musica tradizionale giapponese.
Salgono sul palco alle ore sedici di un caldo pomeriggio romano.
Le condizioni climatiche non sono quelle ideali, mi colpisce l’aura di sacralità che permea ogni loro gesto e le loro espressioni serene e sorridenti, anche durante le esecuzioni più impetuose e vigorose.
Lo spettacolo è anche di colori e coreografie, e le frequenze sonore dei tamburi fanno risuonare diaframma e plesso solare ben prima di fare lo stesso con la mia membrana timpanica.
Mentre chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dall’onda sonora, uno degli ultimi pensieri che emergono a livello di coscienza è che non vorrei litigare con Joji Hirota per nessun motivo al mondo.
Poi faccio fatica a distinguere illusione da realtà.
Illusione.
“Fata Morgana” è chiamato il fenomeno per cui, in particolari e rare condizioni atmosferiche, sullo stretto di Messina si formano delle microparticelle d’acqua in sospensione nell’aria.
Nelle giornate limpide, la rifrazione della luce solare, unita al riverbero del mare, fa sì che da Reggio Calabria le sponde dello Stretto appaiano molto più vicine di quanto non siano, illudendo che sia possibile passare con un semplice salto dall’una all’altra.
Una versione normanna della leggenda di Re Artù racconta che la Fata Morgana edificò il suo castello di Cristallo negli abissi di questo braccio di mare, da dove traeva in inganno marinai e pescatori.
A questa leggenda è dedicata ‘Na Primavera‘, la canzone che apre il set dei Parafoné, collettivo di diversi musicisti, formatosi a Serra San Bruno, in provincia di Vibo Valentia, da diversi anni attivo nel recupero e nella riproposizione delle tradizioni musicali calabresi.
E l’incontro della Calabria con il mondo non poteva che partire dallo Stretto, fin dai tempi di Omero crocevia di miti, racconti, storie di marinai provenienti da ogni parte del mondo.
La band ha un grandissimo tiro che trascina nelle danze il pubblico presente.
Sonorità e ritmi che richiamano il folklore celtico si alternano a momenti in cui è ben chiara la matrice contadina con l’utilizzo di organetti e tamburi a cornice, e vocalità che si muovono su modi e utilizzano le emissioni tipiche del canto contadino.
Chiudono con una elegante milonga sui greci di Calabria, regione storicamente arcigna che con la musica dei Parafoné torna ad aprirsi alle contaminazioni culturali con il mondo.
Si cambia palco ma si resta sempre sullo Stretto di Messina, stavolta sponda siciliana, con gli Unavantaluna.
Si formano a Roma, ma provengono dalla zona compresa tra l’Etna e i monti Peloritani, sopra Messina.
E, nel segno della continuità, danno la mano ai Parafoné, formando un ponte di note su quella sottile striscia d’acqua che separa la Trinacria dal continente.
Friscalettu (si legga zufolo di terracotta), ciaramella, tamburi a cornice e Fender Telecaster che insieme ci sta un gran bene.
Nella loro performance la tradizione millenaria acquista nuova vita ed energia dall’incontro con suoni più moderni.
Creano una proposta musicale molto evocativa, che coglie in pieno lo spirito che anima il WOMAD Roma.
Nei loro suoni colgo nuovamente l’animo profondo del mare e delle storie che tramanda agli uomini, secoli dopo secoli.
Il mare che regala nutrimento, mare che può diventare portatore di morte.
La loro musica ha una gran potenza di fondo, si percepisce un forte radicamento con la terra.
Terra lavica, suoni che nascono dalle profondità dell’Etna e che evocano la potenza distruttiva ma al tempo stesso apportatrice di fertilità del vulcano.
Pardon, “d’à Muntagna”.
Restiamo in zona laghetto per il set di una delle band più attese dell’intera tre giorni: gli Indaco.
Gruppo storico e pionieristico della World Music italiana, fondato nel 1992 da Rodolfo Maltese, indimenticato chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, Mario Pio Mancini, Arnaldo Vacca, questi due entrambi presenti sul palco del WOMAD Roma.
Per esigenze di sintesi non elenco qui le collaborazioni della band con il gotha della world music, e non solo, italiana e internazionale.
Sul palco basso e chitarre si trovano accanto a mandolini, arpa e percussioni.
Sonorità jazz-rock si innestano su melodie e armonie mediterranee.
I loro suoni invitano ad abbandonarsi alla contemplazione e a recuperare lo spazio dell’anima e lasciar scorrere vita, persone, incontri e pensieri.
Si assaporano i profumi dei limoni del Cilento, con l’overdrive e i delay sugli arpeggi di chitarra e i riverberi del sax tenore in ‘Ascea‘, scritta insieme a Mauro Pagani, e poi si plana in Sardegna, con ‘Salentu‘, originale pizzica in sardo, composta insieme ad Andrea Parodi dei Tazenda.
Non c’è molto da aggiungere, se non che la proposta musicale è ricercatissima, di classe superiore e raffinata.
Elegante ma non indimenticabile è il set Norig & No Gipsy Orchestra, trio balcanico di provenienza ma francese di formazione. Eseguono brani della tradizione balcanica, canzoni serbe, bulgare e rumene.
La contaminazione culturale è presente anche nella loro proposta, colgo evidenti le influenze jazz e swing e ritrovo qualcosa delle chanteuse francesi nel modo di impostare e attaccare il cantato.
Sarà che non conoscendoli e avendo letto “balcani” mi ero fatto il film mentale di Goran Bregovic e auspicavo corse indiavolate e danze tzigane ungheresi come se non ci fosse un domani.
Tuttavia, il nome “No Gipsy” avrebbe dovuto chiarirmi le aspettative.
Probabilmente non sono nella giusta predisposizione d’animo, o forse sarà la fame, e dopo mezz’ora ne approfitto per avvicinarmi all’area food e assecondare capricci gastro-palatali.
A pancia piena cambia il mondo intorno a me.
Non so se sia il poké o la birra, ma l’eleganza e la raffinatezza del sax di Daniele Sepe e della voce di Emilia Zamuner fanno il paio con quella degli Indaco.
Jazz italiano e suoni d’oltreoceano.
Sudamericani, per la precisione.
Lontananza, nostalgia, malinconia di chi raggiunge mondi fino a quel momento nemmeno immaginati.
Note e vibrazioni legate al ricordo e alle origini di viaggiatori verso l’ignoto.
Si apre così il set di un’ora e mezza dedicato a Napoli e al suo suono.
Poi gli Osanna, storica superband del prog italiano.
Della prima formazione è rimasto il solo Lino Vairetti, per il quale non è frase di circostanza dire che il tempo sembra essersi fermato.
Motori al massimo, “lift off” e si vola.
Le maschere di scena sono quelle di sempre, i fraseggi di moog e di chitarra elettrica su una giga, danza veloce in tempo ternario (si ascolti ‘È Festa‘ della PFM) catapultano immediatamente nel mondo del progressive italiano.
Il suono è potente, trascinante e pieno e va avanti così.
Intanto nel backstage la mia attenzione è catturata da un gruppo giovanissimi che stazionano nei pressi della scala che porta sul palco.
Sono circa dieci tra ragazze e ragazzi e fanno parte di “Banda Larga”, progetto di due scuole di musica campane finalizzato a creare occasioni di stimolo e crescita artistica per ragazzi che vogliono approcciare il mondo musicale.
Insieme agli Osanna eseguono ‘L’Uomo‘, duettando e rappando con Lino Vairetti.
E jammando con la band che inserisce nel pezzo un mash up di ‘Starway to Heaven‘ e delle hendrixiane ‘Purple Haze‘ e ‘Foxy Lady‘.
I ragazzi non hanno fatto prove, dieci minuti dopo avranno i miei complimenti sinceri.
È il turno di Mario Coppeto e la sua versione partenopea di ‘Bella Ciao‘, le tammurriate di Fiorenza Calogero e l’etnopop dei Renanera carico di pathos.
Chiude Antonio Onorato con la sua rilettura in chiave rock acustica di tradizionali della musica campana, con un fuori programma finale: la protesta sul palco dei responsabili del progetto Banda Larga che avrebbero dovuto eseguire il loro pezzo ma sono stati tagliati per i tempi andati lunghi.
Ed è un gran peccato.
Tempi ristretti quindi, tradotto: gran corsa per cambiare palco e non perdersi nemmeno un centesimo di secondo del live Seun Kuti.
Figlio del più grande esponente di tutti i tempi della musica africana, fondatore dell’afrobeat, rivoluzionario nigeriano “The Black President”: Fela Kuti, uno degli artisti più influenti della musica del secolo scorso.
Con lui la storica band degli Egypt 80, già definita dal padre «la più rivoluzionaria macchina ritmica dell’Africa tropicale».
E le parole di Fela trovano conferma anche a Villa Ada: una sezione ritmica che pompa un groove con pochi eguali per le mie orecchie, e i fiati che forniscono ai brani ulteriore boost.
Seun agisce come un maestro di cerimonia, concedendo con generosità e senza gelosie la scena ai musicisti.
Si passa da suoni e ritmi incalzanti, ad atmosfere sonore felpate, feline, suadenti e carezzevoli.
Lo scandire dei testi richiama i maestri dello spoken world, a cui l’artista ha spesso dichiarato di ispirarsi.
Un concerto coinvolgente e d’impatto che, va detto, meriterebbe un pubblico un po’ più numeroso.
Seun è portavoce del messaggio del padre.
La lotta dell’Africa per la libertà, la dignità, con la forza delle parole e del pensiero: «Anziché “alzati e combatti”, il mio messaggio deve diventare “alzati e pensa”».
Una lotta con il sorriso, la gioia e con la forza eversiva, liberatrice e rivoluzionaria della danza, interminabile, martellante.
Una lotta che vive di energia femminile, empatia, accoglienza, inclusione, generosità, fiducia.
L’energia della Madre, che va abbracciata senza timore «uomini, ricordatevi di abbracciare la Madre».
L’Amore della Madre è rivoluzione «non è l’amore romantico delle favole o dei fidanzati. È una forza profonda, l’energia più pura che trasforma il mondo».
E dopo questo messaggio urbi et orbi all’insegna del puro spirito, pensa bene di terminare la sua performance, con un pezzo tarantolato e le danze a torso nudo sue e delle coriste a stimolare istinti “sulfurei” nel pubblico di qualsivoglia genere e orientamento sessuale.
Il ritmo si scioglie all’interno della membrana fosfolipidica delle cellule che formano il corpo e penetra fin nel più nascosto angolo di cromosoma.
Si danza e si ritrova l’abbraccio primordiale tra maschile e femminile.
L’unione dei due principi dell’energia universale.
Con l’uomo nella donna e donna nell’uomo.
Nel Sangue dell’Eden.
Ma guarda un po’, proprio come cantava Peter Gabriel.
WOMAD Roma
Sabato 10 giugno 2023
JOJI HIROTA e KYOSHINDO (Giappone)
PARAFONÈ (Italia)
UNAVANTALUNA (Italia)
INDACO (Italia)
NORIG & NO GIPSY ORCHESTRA (Serbia)
DANIELE SEPE & EMILIA ZAMUNER (Italia)
NEAPOLIS SOUND (Aa. Vv.)
SEUN KUTY & EGYPT 80 (Nigeria)