Wilco live a Milano: una lunghissima gita autunnale
Un’attesa lunga un anno per i Wilco.
Tanto è l’anticipo con cui questa serata del 12 novembre al Fabrique di Milano è stata annunciata, e se le due date estive italiane erano ancora parte del tour del penultimo disco “Star Wars”, qui abbiamo voltato pagina. C’è un nuovo album, “Schmilco”, pubblicato a settembre, e questo è “Schmilco World Tour”. Una sorpresa, per chi ha acquistato il biglietto con congruo anticipo quando del nuovo capitolo se ne ignorava ancora l’esistenza, e pure un simpatico aneddoto dato con il logo stampato sul ticket che fa per forza di cose riferimento al disco precedente.
In apertura, e non caschiamo molto lontani in termini musicali e geografici, un ragazzotto del Tennessee, William Tyler, con uno spiccato senso per l’indie folk e la sua interpretazione in chiave rock.
Il palco è allestito in maniera suggestiva, decorato e incorniciato con rami e foglie di cartapesta dai colori stagionali. Si respira aria di Stati Uniti, di grandi spazi e di grandi influenze popolari ancor prima di accendere l’impianto. Arrivano poi loro sul palco, in sei, e intiepidiscono l’aria con un inizio che sa di finale. La scelta di ‘Ashes of American flags‘ non è sicuramente casuale se pensiamo a certe loro prese di posizione extra-musicali, Jeff Tweedy chino sul microfono, il suono un po’ orchestrale e discreto e la chiusura in crescendo.
È autunno, lo sappiamo noi e lo sanno anche i Wilco.
I primi pezzi sono tutti su questa falsariga, educati e composti, in punta di piedi, una voce che inizia a decollare con ‘If I ever was a child‘, un suono che inizia ad articolarsi strada facendo premendo sulla linea di basso con ‘Cry all day‘. I Wilco hanno diverse anime, e la lunga scaletta permette di alternare e combinare tutte queste loro fasi, accompagnando il concerto senza frenesie e stacchi schizofrenici. I contatori dell’ENEL vengono tirati su nel finale di ‘Art of almost‘ e il tiro sale inesorabile in ‘Pickled ginger‘, ogni strumento ha la sua linea chiara e facilmente individuabile, come se ciascuno andasse avanti per conto proprio ma contribuendo all’organicità del suono che ne risulta.
Il lato morbido dei Wilco trova di nuovo spazio, Jeff Tweedy imbraccia la sua Gibson “Diavoletto” per far cantare tutti con ‘Jesus, etc.‘, poi tocca a Nels Cline salire sugli scudi, a colpi di slide guitar e di assoli da brivido, degno di nota in particolare quello di ‘Impossible Germany‘. Il finale del set principale è un bel crescendo, con la frenesia che lascia spazio a un suono pieno, inciso e incisivo, raccontato col folk voluminoso di ‘The late greats‘.
Saremmo soddisfatti già così, ma siamo preparati e sappiamo che non è affatto finita. L’encore apre brillante con ‘Random name generator‘, strutturata con criterio e impreziosita dalla voce impeccabile di Jeff Tweedy, poi ‘Spiders (Kidsmoke)‘ dà il via a una serie di variazioni di tempo e ritmo, con chitarre maltrattate e distorsioni infinite a cura nuovamente di Nels Cline, per dei lunghissimi minuti di suoni impegnativi che si rincorrono con stile e con garbo.
I Wilco escono nuovamente di scena, ma le luci non si accendono perché anche il secondo bis è nell’aria. Molto più sentimentale del primo, condito da tanto folk che fa molto stelle e strisce, tra gli arpeggi e le plettrate quasi pizzicate di ‘War on war‘ e la nostalgia quasi commovente di ‘A shot in the arm‘, che va ad aprire moltissimo nel finale. Siamo al capitolo finale di un concerto lunghissimo, dalle molteplici sfumature e dalle variazioni impegnative ma mai scomode. Abbiamo la conferma che gli Wilco non lasciano nulla al caso, e la struttura impeccabile che troviamo nei loro dischi si trasforma nei live in una cura del suono e dello spettacolo, mai troppo banale ma nemmeno mai sopra le righe, che nel panorama contemporaneo ha davvero pochi eguali.
Foto di repertorio, non relative alla serata del concerto