Wardruna, un viaggio ancestrale tra musica e spiritualità
Agli Arcimboldi i Wardruna protagonisti di un’esperienza mistica
La band norvegese incanta il pubblico con un live evocativo, intrecciando sonorità nordiche, atmosfere rituali e un’energia senza tempo
Milano, 07 Novembre 2024
Seguo i Wardruna da quando uscì la prima stagione di “Vikings” ma non li conobbi attraverso quella serie. Mio padre mi ha trasmesso l’amore e soprattutto la curiosità nei confronti di moltissime civiltà indigene ed aborigene; riguardo il popolo dei vichinghi, però, il percorso alla loro scoperta è stato differente. Mi ha spesso raccontato di come il viaggio in Islanda che fece con mia madre (proprio nove mesi prima che io nascessi, che coincidenza…) lo avesse condannato all’eterno amore che, da lì in avanti, avrebbe provato per i paesi nordici.
Avevo undici anni quando i Wardruna debuttarono e li conobbi con ‘Hagal’, la seconda traccia del loro primo album – “Runaljod – Gap Var Ginnunga”.
Avevo undici anni e ce ne ho messi altri quindici per avere l’occasione di riuscire a vederli in live.
Risparmio la telecronaca sul viaggio (lungo): da Carrara a Milano mi aspettavo una cosa più spedita ma il traffico cittadino riesce, ogni volta di più, a sorprendermi. Sono arrivata al Teatro Degli Arcimboldi giusto in tempo e, fuori dall’ingresso, ho avuto il piacere di reincontrare compagni di viaggio, e di avventure, i quali ho avuto la fortuna di conoscere ormai diversi anni fa.
La Musica, d’altronde, deve unire, e ringrazio i festival celtici in particolar modo: mi hanno permesso di avvicinarmi a questo mondo e di alimentare, conseguentemente, quel senso di unione e familiarità che nasceva con qualsiasi altra persona che ne facesse parte. Al concerto ho notato la loro emozione che veniva sprigionata da ogni poro della loro pelle. Occhi lucidi e sognanti che si stavano preparando a rivivere il viaggio che i Wardruna hanno il potere di far intraprendere a chiunque abbia la fortuna di poterne condividere il proprio tempo. Sì, ho scritto bene: condivisione. Non reputo questa esperienza una mera partecipazione passiva ad un qualsiasi live show, c’è un qualcosa di più profondo, di più inconscio. Ma ci arriveremo.
È l’ora di entrare. La scenografia è leggermente diversa dallo scorso tour: hanno disposto due file di cespugli che, un po’ da ogni prospettiva, potessero richiamare un manto erboso sul quale loro poi avrebbero suonato, mentre oltre all’ormai noto fondale bianco, composto da una texture simile a delle foglie, sono stati aggiunti quattro teli, della stessa conformazione del fondale, due a lato. Ho fatto giusto in tempo ad accomodarmi e a sbirciare sul palco che, con un crescendo dinamico durato almeno una ventina di minuti e a luci ancora accese, iniziano a venire riprodotti dei rumori. Tra quelli del vento e quelli del sottobosco, hanno via via scaldato il pubblico che, poco alla volta, ha sempre più preso coscienza dell’idea che si trovasse proprio lì, in quel momento, e da nessun’altra parte.
Cala il buio e lentamente i musicisti si appropinquano alle loro postazioni. Il pubblico esplode in un boato ma con la stessa velocità si riammutolisce: un riflettore illumina il moraharpista, John Stenersen, la cui ombra si proietta sul fondale. Il pubblico si trattiene e rimane in visibilio, mentre ‘Kvitravn’ (dell’album omonimo) apre le danze e, come un corvo bianco, ci fa spiccare un volo unico verso quello che sarà il Viaggio dei Wardruna, tra linee polivocali, percussioni ipnotiche, giochi di luce e molto altro da lasciare a bocca aperta anche il più scettico.
La seconda in scaletta è ‘Hertan’, in cui le linee di voci sovrapposte e il modo in cui le luci sono state fatte “scorrere” sull’erba, mi hanno creato un effetto quasi palliativo. D’altronde, quel quadro mi ha ricordato il mare e solo chi ha bisogno di ritrovarsi lo va a guardare. Ma proprio le emozioni guidano questo brano, il quale scopo è proprio quello di svelare la natura multiforma del cuore (hertan, termine proto-scandinavo, significa proprio cuore), comprendendo sia i suoi aspetti tangibili come il ritmo, il flusso e la pulsazione evidenti nella natura e nelle forme di vita, sia il suo ruolo astratto come timone metaforico che guida emozioni, decisioni e desideri genuini.
Una volta che il cuore ha smesso di pulsare, e le ombre sono cadute nuovamente nel teatro, è stato il turno di ‘Skugge’, la quale proprio il cantante Einar Selvik ha descritto come «a song about shadows, echoes and the balance between seeking answers and wisdom internally and externally». Le luci si tingono di verde e nel fondale viene proiettata l’ombra di Einar che, come la più bella magia che potessero farti da bambino, si muoveva in latenza rispetto a lui e inevitabilmente mi ha catapultata sull’Isola che non c’è, insieme a Peter Pan e alla sua ombra con “vita propria”. Ma il confronto che, da bambini, ci ha messo davanti Peter Pan è stato proprio quello nei confronti della necessità di ricercarla sempre quell’ombra, di non perderla mai, perché, inevitabilmente, si perderebbe se stessi.
Sembrerà una digressione, a voi lettori, ma di cosa parla ‘Skugge’, alla fine? È una ricerca, un viaggio spirituale, e perché non proprio una ricerca di se stessi? ‘Skugge’ in inglese si traduce proprio come ‘Shadow’ e quest’ombra viene interrogata ma non risponderà mai, perché, alla fine, le risponde che stiamo cercando, sia lui il narratore che noi tutti che ci stiamo identificando in lui, in realtà si trovano già in cuor nostro.
Il narratore e l’ombra finiscono di dialogare e cala nuovamente il buio su tutti. È il momento del quarto brano, ‘Solringen’. È il momento del Ring of the Sun. Il fondale si tinge di un verde molto chiaro e una linea gialla e arancione inizia a crescere, andato a creare l’immagine di un’eclissi solare, mentre i legni e i flauti risuonano per tutto il teatro. Ho potuto apprezzare finalmente la voce di Lindy-Fay Hella a dovere, mentre Einar rimaneva vocalmente in secondo piano, azzarderei addirittura dicendo che stesse mantenendo una sorta di “tappeto” con le parole.
Tornando all’Anello del Sole, dovete sapere che nella tradizione le donne della famiglia in una fattoria avevano il compito di uscire nei campi intorno alla mezza estate e svegliare gli elfi che vi dimoravano con rime e canti, per incoraggiarli a garantire crescita e buoni raccolti. Queste canzoni e tradizioni sono ormai in gran parte passate nell’oblio. L’idea iniziale dietro ‘Solringen’ è che le nuove canzoni possano risvegliarli ancora una volta. Ogni inizio però ha una fine, ogni alba ha il suo tramonto.
È il momento di ‘Heimta Thurs’, un brano estremamente dolce nel significato e tratta ovvero dell’importanza di avere qualcuno al proprio fianco con cui condividere il proprio viaggio, e che, finalmente, mi ha dato molto di apprezzare dal vivo un po’ di throat singing fatto bene. Breve ma intenso. È stato anche un viaggio musicale, fatto di cambi repentini, oltre che un viaggio metaforico narrato nella sua storia. Un viaggio tinto di rosso in cui il rumore del vento inebriava la sala e il corno scandiva le varie dinamiche. Le percussioni seguono il crescendo come fanno anche i giochi di luce, passando da ombre evocative a luci epilettiche. La dinamica si abbassa di colpo e lascia spazio ad una chiusura di Einar. La voce si abbassa. Buio.
È l’ora di ‘Runaljod’, the sound of runes, brano in cui dominano le voci polivocali, le percussioni e i corni, ma che è stato forse quello per me sfavorito della serata, perché la mia attenzione veniva costantemente spezzata dai movimenti spasmodici e a tratti forzati di Lindy-Fay Hella. Probabilmente unica nota dolente che potrei far emergere dallo spettacolo – mi rendo conto che è proprio un pelo nell’uovo, in ogni caso, ma mi sembra giusto farlo presente per una questione di sincerità e trasparenza. Tornando a noi, ‘Runaljod’ ha solo anticipato quello che sarebbe stato per me uno dei brani di punta della serata: ‘Lyfjaberg’, brano che sicuramente conoscerete ma che mi ha lasciata a bocca aperta per come hanno utilizzato le macchine del fumo sul palco: con un celeste di fondo che faceva sembrare la scenografia fatta di ghiaccio, sono riusciti a ricreare delle vere e proprie “cascate” di nebbia densissima che poteva tranquillamente essere scambiata per una valanga di neve, che dal palco scendeva giù in platea – ero in sesta fila quindi, se ve lo state chiedendo, sì, ci è arrivata tutta in faccia. Bellissimo, però. Ammetto che c’era un po’ fresco ma, ehi, la Regina Elisabetta II teneva le finestre aperte la notte per mantenere la pelle tonica, a noi direi che ci è andata ancora più di lusso.
La neve va a calare, lasciando la nebbia nella platea. Di nuovo buio. Arriva il momento introspettivo, è il momento della storia, quindi lasciamo spazio ad Einar e alla sua kraviklyra perché è l’ora della sua ‘Völuspá’, il quale è anche il titolo della prima e più conosciuta poesia dell’Edda Poetica. Come la poesia, il testo della canzone parla di Ragnarök, il “Crepuscolo degli Dei”. Alla fine, buio.
Sale il rumore della tempesta. I corni si fanno strada e annunciano l’arrivo del dio della guerra. È il momento di ‘Tyr’. I corni suonano e danno il ritmo alle percussioni. Chiudo gli occhi e vedo Tyr decapitarsi la mano mettendola in bocca al grande Fenrir. A mani basse, questo è stato il brano che ho preferito di più in tutta la serata. I corni si fermano e cala di nuovo il buio. Mi è piaciuto questo modus operandi, in cui ogni brano è stato chiuso con l’oscurità, preceduta subito prima da un fade out vocale di Einar.
Adesso è il momento del decimo brano. Il palco si tinge di blu e Lindy-Fay inizia un tappeto vocale. È il momento di ‘Isa’, ovvero l’undicesima runa dell’alfabeto Elder Futhark. Il significato di isa è ghiaccio, un titolo appropriato per una canzone suonata usando il ghiaccio. Avete capito bene. In un’intervista di Rolling Stone, Einar ha rivelato di aver registrato questo brano utilizzando il ghiaccio proprio come uno strumento vero e proprio. Andate a cercare questa storia, non ve ne pentirete. In ogni caso, credo che le macchine del fumo sarebbero state evocative anche in questo brano, non solo in ‘Lyfjaberg’, ovviamente imho. Fade out su Lindy-Fay. Buio.
Dal buio hanno iniziato ad emergere dei rumori come di foglie calpestate e, lentamente, i richiami sempre più incisivi dei lupi. È inevitabile. Adesso è ‘Grá’ a possedere la scena. Grá significa grigio ed è proprio l’omaggio che hanno voluto compiere nei confronti dell’animale totemico per eccellenza: il lupo. La traccia è più focalizzata sugli elementi percussivi, rispetto al solito. Tuttavia, abbiamo sempre la voce familiare e potente del duo Einar Selvik e Lindy-Fay Hella, che creano per gli ascoltatori l’atmosfera giusta che funge da filo conduttore con il sapore degli altri brani, rimanendo comunque fuori dalla “zona di confort” e posizionandosi (Einar) in mezzo al palco, allienato ai corni che erano posti proprio al centro del palco, e a lato (Lindy-Fay) proprio come per liberare la scena centrale. Una volta che il richiamo è stato cessato, il buio è andato a calare, con il suo solito moto perpetuo, sulle nostre teste.
È il momento del singolo che anticiperà l’uscita del loro nuovo album “Birna”, il 24 gennaio 2025. È il momento di ‘Himmindotter’, the sky daughter – il titolo gioca sulla nozione globalmente comune dell’origine mitica dell’orso come essere celeste. Da settembre ad oggi avevo ascoltato solo una volta questa canzone, ne sono rimasta piacevolmente sorpresa, dato che è veramente scontato dire che la loro resa live sotterra completamente qualsiasi loro brano ascoltato anche dal migliore impianto. Sono davvero curiosa di quello che sarà tutto il loro nuovo album.
Bando alle ciance, la canzone seguente è ‘Rotlaust tre fell’. Il gracchiare dei corvi risuona nella sala quando, una volta iniziato il brano, passa veramente poco che la calma viene interrotta da un picco di dinamica che si vedrà immutato fino alla fine, quando ci sarà un finale senza fade out vocale ma una chiusura netta in distorto. Nel finale, proprio sulla chiusura, vengono proiettati dei fulmini. Vorrei soffermarmi adesso un attimo sul titolo, facendo una piccola digressione che, vedrete, in realtà non lo è.
‘The rootless tree falls’, “L’albero senza radici cade” nel senso che tutti noi abbiamo bisogno di avere una qualche forma di fondamento. Tutti devono attraversare una sorta di tempesta ad un certo punto della vita e coloro che hanno forti radici mentali sopravvivono più facilmente. Che meraviglia. Quant’è bello il modo in cui loro progettano le loro scenografie, sempre collegate al significato dei testi che cantano, a tratti onomatopeiche a tratti sinestetiche. Torniamo nel buio.
Ci stiamo avvicinando alla fine. È il momento di ‘Fehu’ la quale è stata eseguita pari all’originale ma la potenza che è stata sprigionata, no, quella è stata ineguagliabile, in grado di evidenziare il messaggio del testo, che mette in guardia contro la natura distruttiva dell’avidità e ricordando l’importanza di valorizzare le relazioni rispetto ai beni materiali. La scena si chiude con i riflettori puntati su i due cantanti. Buio.
C’è silenzio, le luci si aprono e lasciano che adesso siano i musicisti a guardare tutti noi. Non fanno in tempo a ringraziarci di essere lì presenti che è partita una standing ovation in grado di lasciarli sbalorditi. Ma adesso siamo giunti al brano che probabilmente una buona parte di tutti gli spettatori stava aspettando. Il cantante Einar Selvik ringrazia tutti noi presenti e si ritaglia del tempo per introdurlo.
È giunto il momento di onorare il passato, di guardarlo e di imparare da ciò che è stato. Ci ha chiesto se volessimo cantare con lui, perché quelle parole che lui avrebbe pronunciato avrebbero avuto più impatto se cantante con noi. È l’ora di ricordare ed onorare chi se n’è andato dalle nostre vite per condurre il viaggio più difficile di tutti: quello verso i cancelli del Regno di Hel. È il momento di ‘Helvegen’.
Non ho veramente parole per descrivere ciò che è stato, avreste dovuto vedere la mia pelle d’oca prima, durante e dopo il brano. Un’esecuzione da manuale, con la chiusura a cappella che ha incoronato il controllo e la prestanza vocale di Einar Selvik – non che prima fossero state messe in dubbio. Poi, buio, per un ultima volta.
Adesso le luci si aprono e tutti i musicisti si avvicinano alla platea per ringraziarci, cercando di scorgerci un po’ tutti. Ed ecco che parte la seconda standing ovation. Con ancora noi tutti in piedi, si ritirano e lasciano il palco ad Einar che non ci mette nemmeno un secondo per invitarci a fare un caloroso applauso non solo ai suoi compagni di viaggio e di palco ma anche a tutta la sua crew che lavora incessantemente per realizzare ciò che abbiamo visto giovedì sera. La standing ovation non cede di un millimetro e le mani continuano ad applaudire ma ci invita a sedere, perché avrebbe avuto un’ultima canzone in serbo per noi.
Così, imbracciando la sua kraviklyra, Kvitrafn (il suo nome d’arte) ci culla con una Skaldic Mode del brano che creò in onore di Ragnarr Loðbrók e quello che fu il suo ultimo viaggio, condannato a morte da Re Aelle di Northumbria nella fossa dei serpenti. Il brano prende il nome di ‘Ormagardskvedi’, conosciuta soprattutto come ‘Snake Pit Poetry’. Tre minuti in qui la voce di Einar e poche, striminzite ed estremamente toccanti note riescono a creare una voragine nell’ascoltato, letteralmente annichilito dinanzi a tanta drammaticità. Un’interpretazione straziante che ha portato il pubblico ad eseguire una terza, ed ultima, standing ovation.
Visibilmente commosso, Einar ci guarda tutti tenendosi per un attimo una mano sulla bocca, emozionato.
«Stasera, voi presenti, ci avete convinti a tornare presto in Italia». Speriamo, caro Einar, perché i vostri spettacoli sono tra quelle esperienze che, almeno una volta nella Vita, andrebbero vissute. Ultimi saluti, ultimi sguardi, ed esce anche lui di scena.
Sipario.