Vinicio Capossela ci concia per le feste
Il solito grande Vinicio maestro di musica e di emozioni gioca a fare il menestrello di un Natale senza tempo.
All’Atlantico la data romana del tour invernale del cantautore
Roma, 18 Dicembre 2024
«Grazia a tutti». Con queste parole frutto di una svista poetica Vinicio Capossela saluta tutti all’incedere del Natale. L’occasione è un concerto romano, nella location dell’Atlantico che conferma tutte le perplessità di una struttura che andrebbe migliorata sia dal punto di vista acustico che dell’accoglienza e che negli anni ha visto calcare il suo palco tanti artisti italiani e internazionali.
Eppure in questo caso aveva il mood giusto per lo spettacolo messo in piedi da Capossela. Sciustenfest, neologismo italo-tedesco che nei ricordi di Vinicio bambino era la parola del padre, emigrato italiano in Germania, che provava in modo maccheronico a spiegare al figlio questa festa tipica del Nord Europa. Una fiera, dove alle giostre circensi si aggiungevano luci colorate, musica festaiola e danzante, che non faceva troppo caso ai virtuosismi, cibo scadente che combatteva il freddo, ma tanta allegria e serenità come ogni cosa che rivanghiamo dal passato.
Capossela si presenta con una band vestita di colori, a mo’ di una sgangherata ‘Sgt. Pepper’ di beatlesiana memoria, e inizia uno spettacolo in cui rivisita il suo repertorio arrangiato per l’occasione, in modo tzigano, per certi aspetti ricordando anche il miglior Bregovic. Rivisita classici di Natale come ‘Bianco Natale’ (‘White Christmas’), ‘Campanelle’ (‘Jingle Bells’), ‘Santo Nicola È Arrivato in Città’ (‘Santa Claus Is Coming to Town’) e ‘Charlie’ (‘Christmas Card from Minneapolis’). Brani destrutturati, rivoltati e stravolti dal talento quasi fuori gestione dell’artista italiano.
A metà spettacolo, circondato dalla sua maschera, si ferma a raccontare la storia del Santo Nicola (Santa Claus), i suoi desiderata e i nostri. Un racconto onirico delle realtà che viviamo, con velati, ma non troppo, riferimenti alle contraddizioni della vita reale e della politica. Con un ammonimento finale: «fate attenzione a ciò che desiderate, perché magari si realizza davvero». Poi pesca a piacimento e sensazione dai suoi classici che per l’occasione ben vestono la serata, riarrangiati per strumenti da strada e non da auditorium. Si alternano, quindi, ‘Voodoo Mambo’, ‘Angelina-Zooma Zooma’ (citazione di Louis Prima) e ‘Marajàh’.
Il primo finale è lasciato a ‘Sciusten Feste n.1965’ e ‘Dankeshön’, pezzi guida e omaggio alla tradizione germanica vissuta da bambino. Ma c’è spazio nel finale anche per il Capossela lirico con due meravigliose versioni pastorali de ‘Il tempo dei Regali’ e ‘Ovunque Proteggi’. Pubblico al solito ammaliato e in visibilio per un artista maestoso, stupendo, che andrebbe celebrato per la sua capacità di fare arte e poesia, sospeso tra antico e moderno, trasformando la bidimensionalità spazio-tempo in qualcosa al di là di ciò che nella quotidianità pensiamo e proviamo.
Le due ore di Vinicio Capossela sono un canto crepuscolare tra una birra e l’altra, che davvero ha pochi uguali nel panorama artistico globale. Vinicio si schernisce quando lo si paragona a Bruce Springsteen che ha calcato i suoi stessi palchi: eppure un fil rouge esiste ed è la capacità di connettersi a ciò che vibra nella nostra anima. A quell’agrodolce che la vita ogni giorno ci porta via a pezzetti e che tocca solo ai grandi artisti far respirare ogni tanto quando arriviamo al limite.
Così è Vinicio, e così è stato ieri sera. Citando il dialogo tra Antonio Capuano e Fabio Schisa in “È Stata la Mano di Dio” di Sorrentino, non «è tutto una cacata». Qualcosa rimane, come Vinicio Capossela e che la “Grazia”, come dice lui, ce lo preservi il più a lungo possibile, in un giro eterno e colorato come le ruote panoramiche, o le giostre dei calci in culo delle fiere di un Nord Europa qualsiasi, del passato di onirico di ognuno di noi.